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caccia bruno web5

di Fabrizio Gatti
La famiglia del magistrato ucciso nell’83 accusa: «L’indagine di Milano non ha 
trovato i veri colpevoli. E il caso va riaperto». La controinchiesta commissionata dai figli arriva a conclusioni precise: non 
è stato soltanto un delitto di ’ndrangheta
I fantasmi di quei temibili anni Ottanta riaffiorano ovunque. Perfino negli oggetti di cui a Milano è disseminata l’aula della Corte d’assise: il televisore Philips a tubo catodico da cui gracchia la testimonianza del pentito Vincenzo Pavia, il pavimento di linoleum con le venature rosse finto marmo, la vernice delle sbarre consumata da tre decenni di tormenti all’altezza delle mani. Riportano a quell’epoca anche i quadretti rossi e bianchi che dentro la gabbia danno un tocco roseo alla camicia di Rocco Schirripa, 63 anni, l’unico imputato: il panettiere calabrese nato a Gioiosa Ionica è accusato di essere uno dei due killer che spararono al procuratore di Torino, Bruno Caccia, assassinato sotto casa la sera di domenica 26 giugno 1983, in uno dei periodi più sanguinosi della Guerra fredda italiana.
Sul processo in corso in questi giorni a Milano si è diviso un pezzo di magistratura. Da una parte il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia (Dda) Ilda Boccassini, il suo sostituto procuratore Marcello Tatangelo, ma anche il presidente della Corte d’assise, Ilio Mannucci Pacini e il giudice a latere, Ilaria Simi de Burgis, convinti che dietro l’agguato ci sia soltanto la ’ndrangheta. Dall’altra, i figli di Bruno Caccia e il loro consulente Mario Vaudano, magistrato legato alle indagini più delicate contro criminalità e corruzione, che con una dettagliata controinchiesta hanno evidenziato il coinvolgimento della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint-Vincent i guadagni della droga e dei sequestri di persona.
Quella della famiglia Caccia è una denuncia circostanziata, che riporta la testimonianza di un altro storico sostituto procuratore milanese, Margherita Taddei: eppure per ben due volte la Dda l’ha invece iscritta tra gli atti non costituenti notizia di reato, tanto da provocare l’intervento severo del procuratore generale reggente, Laura Bertolè Viale, sull’ufficio di Ilda Boccassini.
Proprio davanti ai giudici, sul banco della Corte d’assise, torreggia il faldone con le carte delle indagini. Lì in mezzo è depositato il foglio numero 507, verbale di istruzione sommaria che è già uno spartiacque: «Era accaduto», racconta il primo marzo 1984 Bruno Masi, amministratore delegato del casinò di Saint-Vincent, interrogato dall’allora sostituto procuratore Francesco Di Maggio, «che dovendo organizzare un convegno di magistrati sul tema magistratura e potere, insieme con il dottor Simi de Burgis, procuratore della Repubblica di Voghera, manifestai anche a costui le mie preoccupazioni circa l’opportunità di occuparmi io della organizzazione... Ricordo in una occasione, nel mese di settembre, che il dottor de Burgis, commentando con me la vicenda nella quale ero rimasto coinvolto, ipotizzò che mi si potesse attribuire (disse testualmente “quale novello Mefisto) tutti i mali della Valle d’Aosta e comunque la responsabilità dell’attentato al dottor Selis e dell’assassinio del procuratore della Repubblica di Torino, dottor Caccia».
L’allora procuratore di Voghera, Romeo Simi de Burgis, poi assolto in istruttoria con formula piena dalle accuse del boss catanese Angelo Epaminonda, è il papà del giudice a latere nel processo a Rocco Schirripa.
È questo il terzo dibattimento sull’omicidio del procuratore Caccia. Il primo si è concluso con una sentenza passata in giudicato nel 1992: ergastolo come mandante per il capoclan della ’ndrangheta Domenico Belfiore, esecutori rimasti sconosciuti e il movente piuttosto generico secondo cui il magistrato è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità. Il secondo processo, interrotto per un grave vizio procedurale nel 2016, è quello contro Schirripa: un cognome indicato trentadue anni dopo l’omicidio in una lettera anonima autorizzata dalla procura di Milano e spedita dalla squadra mobile di Torino al boss Belfiore. Il terzo processo, l’attuale, è il replay che deve rimediare al vizio procedurale. Indizi e prove, fantasmi e mostri di quegli anni Ottanta resteranno comunque fuori dalle nuove udienze.
Lo ha deciso la Corte d’assise con un’ordinanza che addirittura circoscrive la futura testimonianza dei figli di Bruno Caccia «limitatamente al loro ruolo di danneggiati». Il pubblico ministero Tatangelo e gli stessi giudici condividono la premessa secondo cui nessuno può mettere in discussione la sentenza definitiva su mandante e movente. E nemmeno la stessa attività investigativa di Francesco Di Maggio, morto nel 1996, magistrato che molti famosi colleghi di oggi considerano il loro maestro. Così, ancora una volta, Guido Caccia molto probabilmente non potrà riferire in aula quello che il padre gli ha confidato poche ore prima di essere ucciso.
La famiglia del procuratore assassinato, grazie a un’indagine difensiva affidata all’avvocato Fabio Repici e al magistrato in congedo Mario Vaudano, ha infatti scoperto che Belfiore e la ’ndrangheta sono soltanto una parte della trama. Sopra di loro e accanto a loro si muoveva la mafia catanese che a Milano, Torino e Saint-Vincent in quegli anni rispondeva a Nitto Santapaola, ora in carcere a vita per le stragi di Cosa nostra. Il consorzio tra ’ndrangheta e mafia aveva un interesse comune: riciclare attraverso l’ufficio cambi del casinò della Valle d’Aosta i miliardi di lire incassati con i riscatti dei sequestri di persona e il colossale traffico di droga verso la Francia. Un piano che, se scoperto, avrebbe portato alla chiusura della casa da gioco.
Non è una pista alternativa, ma integrativa della condanna contro Belfiore: perché è già tutto scritto negli atti del primo processo, anche se poi la sentenza si è accontentata di una diversa valutazione. Per questo i figli Guido, Cristina e Paola Caccia hanno chiesto nuove indagini sui due nomi già identificati nero su bianco nelle carte depositate. Il primo nome, come ipotetico mandante, è Rosario “Saro” Cattafi: 65 anni, ex estremista di destra, ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sempre sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan Santapaola o viceversa, attualmente è imputato a piede libero in un procedimento per associazione mafiosa. L’altro, denunciato come ipotetico killer, è Demetrio Latella, 63 anni, Luciano per amici ed ex complici: già fornitore di pezzi di ricambio alla marina militare e alla guardia di finanza, in quegli anni sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino, Latella è un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent’anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti. La ragazza di 18 anni, rapita nel 1975 in provincia di Como, uccisa nonostante i genitori avessero pagato il riscatto di un miliardo.
Dopo anni di ricerche negli archivi giudiziari, la famiglia Caccia presenta la sua prima denuncia nell’estate 2013. E la Direzione distrettuale antimafia, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, dimostra subito di non condividere la richiesta di nuove indagini, rese invece possibili dall’esistenza in vita di gran parte dei protagonisti. Pur trattandosi dell’omicidio di un magistrato, la denuncia è iscritta dalla Dda milanese a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». Un trattamento di solito riservato a esposti palesemente inventati come l’eventuale furto del Colosseo, che permette l’archiviazione da parte della Procura senza sottoporre il caso all’esame di un giudice. Infatti la prima denuncia viene archiviata.
Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono. Raccolgono altre notizie e testimonianze. E nell’estate 2014 consegnano alla Procura di Milano la seconda denuncia aggiornata con i nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Dda iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il consulente della famiglia, il magistrato Mario Vaudano, si rivolge alla Procura generale e ottiene l’intervento severo dell’allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale. Si scopre così che il pm Tatangelo ha eseguito le direttive del procuratore aggiunto Boccassini e la prassi della Procura di Torino, da dove Tatangelo proviene. Solo grazie al rimprovero della Procura generale, Cattafi e Latella vengono finalmente iscritti nel registro degli indagati. Da lì a qualche mese, però, a fine 2015 Ilda Boccassini annuncia a sorpresa l’arresto del panettiere Rocco Schirripa. Mentre a fine gennaio di quest’anno il pm Tatangelo chiede l’archiviazione per Cattafi e Latella. Richiesta contro cui la famiglia Caccia ha presentato opposizione.
Il convincimento di un magistrato è insindacabile al di fuori dei riti del giudizio. Ma le osservazioni dei figli del procuratore assassinato sulle scelte investigative dell’allora pubblico ministero, Francesco Di Maggio, trovano conferma nelle migliaia di pagine, che L’Espresso ha potuto esaminare: «Il pm aveva raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo», spiega l’avvocato Repici: «La rilevante mole di fonti probatorie relative a Rosario Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento».
Secondo gli atti depositati dallo stesso Di Maggio e dai colleghi di allora, la mafia comincia a colpire il 13 dicembre 1982. Giovanni Selis, 45 anni, pretore di Aosta, tira la levetta di accensione della sua 500 e l’auto esplode. Il magistrato resta incredibilmente illeso. La sera del 17 dicembre provano ad ammazzarlo sotto casa. Suonano al citofono per farlo uscire. Lui si insospettisce e si chiude dentro. In tutte e due le azioni, viene segnalata un’auto verde con targa francese. Anche l’esplosivo era di produzione francese. Da settembre Selis sta indagando sul casinò di Saint-Vincent: «Come possibile movente», mette a verbale il pretore davanti al sostituto procuratore di Milano, Corrado Carnevali, «richiamo le indagini che avevo in corso presso la casa da gioco... in particolare tra l’ufficio fidi della casa e taluni prestasoldi. Da tempo mi ero interessato all’attività di taluni personaggi. Mi riferisco in particolare a un certo avvocato Valentini di Milano... Aggiungo ancora che una specifica indagine demandata alla guardia di finanza aveva a oggetto l’individuazione della causale di un assegno emesso da un certo ingegner Mariani in favore di Masi, amministratore delegato della Sitav, società che ha la gestione del casinò».
«Dopo l’attentato ai miei danni», aggiunge Selis, «mi telefonò il collega Marcello Maddalena, sostituto procuratore a Torino, chiedendomi un colloquio riservato. In esito a questo colloquio sono legato al segreto istruttorio. Posso però affermare che potrebbe sussistere un collegamento fra le mie indagini e quelle del collega Maddalena, aventi a oggetto riciclaggio di denaro proveniente da sequestri di persona». Nella primavera 1983 il genero del procuratore Caccia, Gianvi Fracastoro, oggi professore al Politecnico di Torino, viene contattato da un ex compagno di scuola conosciuto durante gli studi a Catania.
L’amico ritrovato, Ettore Impellizzeri, una sera lo invita al ristorante “Giudice”, fuori città. Si presenta su una Porsche. A cena Impellizzeri gli rivela di conoscere Nitto Santapaola. E dice che in caso di furto dell’auto, il boss gliel’avrebbe fatta restituire. Poi a bruciapelo l’ex compagno di scuola chiede se il dottor Caccia è avvicinabile: «È uno con cui si può parlare?». Il genero del procuratore non risponde. Lì per lì pensa a una smargiassata. Dopo l’omicidio, l’amico ritrovato non si farà più sentire.
Dal 17 maggio al 13 giugno di quell’anno, Bruno Caccia affida al suo sostituto Maddalena le indagini e il sequestro della documentazione sui conti correnti del casinò di Saint-Vincent, dei suoi amministratori e di alcuni cambiavalute. La guardia di finanza passa al setaccio uffici, case e banche, tra cui le sedi di Novara, Aosta e Milano della Banca Popolare di Novara. I mandati di perquisizione sono inequivocabili. Quei verbali ancora oggi ci ricordano che indagando sul riscatto per il sequestro degli imprenditori Tullio Fattorusso e Lorenzo Crosetto «risulta come le operazioni di riciclaggio venissero effettuate presso il casinò di Saint-Vincent, attraverso un meccanismo che potrebbe coinvolgere responsabilità di persone che operano sia all’interno che all’esterno del casinò, in qualità di cambiavalute o addirittura come responsabili dell’ufficio fidi».
In quegli stessi giorni ad Alessandria si incontrano per parlarne quattro persone: l’amministratore delegato del casinò Masi; Franco Mariani, l’ingegnere messo sotto inchiesta dal pretore Selis nonché commerciante di armamenti e produttore di motori per i mezzi delle forze armate; il suo collaboratore Rosario “Saro” Cattafi e il capitano Rossi, alias Enrico Mezzani, un informatore del Sisde, il servizio segreto interno, in contatto con la guardia di finanza.
Secondo Cattafi, poi interrogato da Di Maggio, Masi era alla ricerca di qualcuno ben introdotto nelle istituzioni capace di bloccare l’iniziativa giudiziaria: «Era anche preoccupato per talune pressioni che, nel corso della cena, disse di avere ricevuto da ambienti siciliani che avevano di mira l’accaparramento dell’ufficio cambi del casinò», sostiene Cattafi. Senza però rivelare che quegli “ambienti siciliani” sono i suoi. Lo racconterà mesi dopo, sempre a Di Maggio, il primo boss pentito Angelo Epaminonda: «Saro, un siciliano, sui 35 anni: dopo i primi convenevoli, nel corso dei quali Saro mi spiegò di essere legato strettamente a Nitto Santapaola, mi feci indicare i termini del progetto. Saro disse che agiva in società con altra persona ben introdotta nel casinò di Saint-Vincent e che si poteva impiantare nel casinò il lavoro del cambio assegni».
Il pomeriggio di domenica 26 giugno, poche ore prima dell’agguato, Bruno Caccia e la moglie Carla Ferrari vanno a casa del figlio Guido. Hanno ospitato i nipotini nel fine settimana e gli riportano i bambini: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia di sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l’assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora. Ma su questo non sono mai stato interrogato».
Quasi quattro mesi dopo l’omicidio del procuratore, il 13 ottobre, l’avvocato di Milano Giuseppe Valentini, lo stesso su cui stava indagando il pretore Selis, scrive all’amministratore del casinò, Bruno Masi: «Colgo l’occasione per comunicarle, unicamente per sua informativa, che ieri ho ricevuto inaspettatamente la visita del signor Saro Cattafi, il quale si è preoccupato di notiziarmi di aver avuto da Lei impegno preciso ed inderogabile di autorizzare suoi amici di essere ammessi all’interno delle sale da gioco del casinò de La Vallè, con la esclusiva funzione di prestare denaro ai giocatori e ciò in cambio di un non precisato favore da lei richiesto e dal signor Cattafi esaudito». Il 7 novembre, l’avvocato Valentini scrive a Masi una nuova lettera, ancor più allusiva: «Non ritengo che io Le abbia mai estorto denaro o richiestoLe in mio favore un ingiusto profitto minacciandoLa di svelare cose o fatti per Lei compromettenti, soprattutto perché non ritengo che Lei abbia delle “verità” o “dei fatti” compromettenti sui quali vuol mantenere il segreto e che siano a mia conoscenza».
Qualche giorno prima, il 3 novembre, l’ingegner Mariani, il compare commerciale di Cattafi, attraverso l’informatore del Sisde Mezzani fa arrivare alla guardia di finanza un rapporto riservato sull’omicidio del procuratore. Non sono stati i calabresi a volerlo morto ma i catanesi di Nitto Santapaola, rivela Mariani, rappresentati a Torino e Milano da Luigi “Gimmi” Miano e da Angelo Epaminonda: «Sempre come sfondo vi è la questione (come giustamente il pretore Selis pensa) inerente Saint-Vincent, Sanremo e Campione. Caccia si era confidato con un avvocato dicendo che poteva tra poco procedere contro i tre casinò. Era certo che tutti i soldi sporchi erano cambiati nei tre casinò... Il numero uno dei killer è un calabrese di nome Luciano legato al clan Santapaola... Al momento c’era in gioco l’asta di Sanremo e qualche improvviso scandalo con conseguenti arresti poteva essere di enorme danno». Preso a verbale l’anno dopo da Di Maggio, Mariani conferma le informazioni. Dice di averle ricevute da Cattafi. E aggiunge che Luciano, l’assassino del procuratore Bruno Caccia, è proprio Demetrio Latella.
Cattafi e Mariani, comunque sempre usciti indenni dalle indagini, vengono nel frattempo intercettati per il sequestro di un altro imprenditore, Mario Airaghi. Il giudice istruttore Margherita Taddei, oggi magistrato alla Corte di cassazione, dispone la perizia sulle telefonate e la trascrizione delle conversazioni. Ma viene fermata dal pm Di Maggio. È il 23 maggio 1984. Rispondendo alle domande del difensore della famiglia Caccia, Margherita Taddei ammette di avere un netto ricordo di quell’iniziativa anomala. Sono parole sue. Mette anche a verbale di essere assolutamente certa che Di Maggio non fosse il pubblico ministero titolare del procedimento: «Ricevetti la visita nel mio ufficio da parte del dottor Di Maggio, che nell’occasione era accompagnato dal dottor Francesco Saverio Borrelli, allora procuratore aggiunto. Il dottor Di Maggio venne per chiedermi di soprassedere dalla trascrizione delle intercettazioni disposte nei confronti di Mariani e Cattafi. Io fui molto sorpresa dall’intervento del dottor Di Maggio... A dire il vero quella richiesta mi lasciò parecchio esterrefatta. Già su quelle intercettazioni, eseguite dai carabinieri del nucleo operativo, avevo rilevato qualche stranezza. Ma davanti alla richiesta del dottor Di Maggio, supportata anche con la sua sola presenza dal procuratore aggiunto Borrelli, per esigenze di indagine che mi vennero rappresentate come particolarmente importanti, non potei che revocare l’imminente perizia». L’intervento di Borrelli, il futuro procuratore di Mani pulite, è stato evidentemente richiesto da Di Maggio che, da quello che si legge nella sua nota riservata consegnata personalmente al giudice Taddei, sta indagando su un «fatto di eccezionale gravità»: non fa nomi, ma tutti i colleghi sanno che la sua indagine più delicata in quel periodo è proprio l’omicidio di Bruno Caccia.
Nel 2009 ancora un colpo di scena. Il magistrato Olindo Canali, oggi giudice al Tribunale di Milano e negli anni Ottanta, come uditore, spesso accanto a Francesco Di Maggio nell’indagine sull’agguato al procuratore di Torino, riferisce una frase che potrebbe far riaprire il caso. Il giudice Canali la pronuncia in una telefonata intercettata e poi la conferma in tutti i procedimenti per mafia in cui è chiamato a testimoniare: «Quel Saro Cattafi in cui trovammo in casa la rivendicazione dell’omicidio del giudice Caccia fatta dalle Br, che in realtà poi sappiamo fu ucciso dai calabresi e dai catanesi», dice nel mezzo di un discorso. La fonte di Canali è sempre Di Maggio. Ma oggi si scopre che, diversamente dalla prassi, i carabinieri del nucleo operativo di allora non hanno fotocopiato i documenti sequestrati a Saro Cattafi: nemmeno le «agende personali» o gli «otto fogli manoscritti», elencati nel verbale e restituiti con tutto il resto al proprietario. Così non ne restano copie.
Il 1983 italiano, cominciato con l’assassinio vicino a Trapani del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto, si conclude con lo stop all’inchiesta del giudice istruttore di Trento, Carlo Palermo. Ciaccio Montalto, Caccia, Palermo hanno aggredito la piovra lungo i suoi tentacoli più pericolosi: quello economico e quello politico. Bisognerà aspettare altri dieci anni, la reazione alle stragi del 1992 e ’93, prima che quella sacra alleanza si spezzi. «Dai morti non ci difendiamo, non c’è niente da fare», dice il giudice Olindo Canali nella telefonata del 2009, «e neanche da ciò che i morti ci dicono con la bocca dei vivi, non ci possiamo difendere». L’importante, però, è saperli ascoltare.

Tratto da: espresso.repubblica.it

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