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riolo claudiodi Claudio Riolo*
Nel novembre 1994 la rivista Narcomafie mi chiese, nella mia veste di politologo, un commento critico alla decisione di Francesco Musotto, allora Presidente della Provincia di Palermo oltre che avvocato penalista, di mantenere la difesa di un suo cliente, imputato nel processo per la strage di Capaci, mentre la stessa Provincia si costituiva parte civile.
Scrissi l’articolo, ironicamente intitolato “Lo strano caso dell’avvocato Musotto e di Mister Hyde”, senza immaginare che le conseguenze mi avrebbero accompagnato per circa vent’anni della mia vita.
Dopo cinque mesi Musotto avviò solo nei miei confronti, senza tirare in ballo la direzione della rivista, un procedimento civile per risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa, chiedendomi 700 milioni di vecchie lire.
Fu subito evidente il significato intimidatorio e simbolico di quell’iniziativa: “Colpirne uno per educarne cento”.
Così la risposta immediata fu corale. L’articolo venne ripubblicato nel maggio 1995 su Narcomafie e sul quotidiano il manifesto, aggiungendo alla mia firma quella di 28 noti esponenti del mondo politico e culturale, che se ne assunsero la responsabilità “condividendone in pieno i contenuti e ritenendolo legittima espressione dell’esercizio della libertà di stampa, di opinione e di critica politica”. Ma Musotto non accettò la sfida e, nonostante minacciasse di querelare tutti, si guardò bene dal procedere contro gli altri firmatari o le testate giornalistiche.
Inaspettatamente nel 2001, dopo quasi sei anni di lungaggini giudiziarie, sono stato condannato in primo grado a pagare 140 milioni di lire per danni morali, e ho cominciato a subire il pignoramento di un quinto dello stipendio. Nel frattempo numerose associazioni del fronte antimafia lanciarono una “campagna per la libertà di stampa nella lotta contro la mafia” per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul crescente uso strumentale dei procedimenti civili a scopo intimidatorio, in particolare per limitare la libertà d’informazione, di critica e di ricerca sul fenomeno delle contiguità tra politica e mafia. Fu raccolto anche un fondo di solidarietà, di cui ho usufruito per pagare le spese legali.
Nel 2003 la condanna è stata confermata in Appello e nel 2007 la Cassazione ha respinto il mio ricorso, rendendola definitiva.
Ero ormai rassegnato a continuare a subire il pignoramento dello stipendio, che in effetti è durato tredici anni e si è concluso nel 2014.
Ma la consapevolezza della posta in gioco riguardo all’esercizio di diritti fondamentali m’indusse a presentare un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che in meno di un anno ha emesso una sentenza di condanna dell’Italia per violazione dell’art.10 (libertà di espressione) della Convenzione.
La Corte ha ritenuto che il mio articolo, pur contenendo una certa dose di provocazione, non era diffamatorio ma fondato su fatti veri e legittima espressione di “un’opinione che non supera i limiti della libertà d’espressione in una società democratica”. Lo Stato italiano è stato condannato a risarcirmi con una cifra sostanzialmente equivalente a quella che mi è stata sottratta, e che Musotto ha incassato senza doverla restituire.
Sarebbe ora che il Parlamento italiano, che ne discute da almeno cinque legislature, modificasse in modo non peggiorativo la normativa sulla diffamazione, per depenalizzarla e ad un tempo per impedire l’uso strumentale del procedimento civile a scopo intimidatorio o speculativo. Bisognerebbe invertire la tendenza alla “monetizzazione del danno morale” in direzione di una terza via “extragiudiziale” (giurì d’onore, rettifica, diritto di replica) in grado di tutelare più efficacemente la reputazione personale senza mettere a repentaglio la libertà d’informazione, di critica e di ricerca.

Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it

Tratto da: "Mafie da un'idea di Attilio Bolzoni"

* Docente di Analisi delle Politiche pubbliche dell' Università di Palermo