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manca attilio web3di Luciano Armeli Iapichino
C’erano una volta antiche civiltà che avevano fatto del culto dei morti il baricentro dei valori terreni e dell’aldilà. Tra queste, gli etruschi, in modo esemplare, avevano reso omaggio ai defunti con un raffinato corredo di arte e di credenze. E sì, l’Etruria, terra di archeologia e storia. Oggi, a distanza di secoli, in quella stessa regione, e in una determinata circostanza, i cadaveri vengono “mutilati” e, per utilizzare una terminologia chirurgicamente più consona, vilipesi. Ai sarcofagi agghindati di dipinti e sculture, suppellettili e manifatture, si sono sostituiti quelli colmi di fango, di scarso senso delle istituzioni, di mediocrità giurisprudenziale e chissà, forse anche di anomale connivenze.

I morti, anzi, il morto, brutalizzato in vita, continua a essere “lapidato” e “massacrato” a colpi di calunnie, deformazioni, storpiature e forzature a senso unico, nella piena consapevolezza (di tanti, di molti) che la legge non è uguale per tutti, confezionate contro chi difendersi, parlare e controbattere non può. Né testimoni a sua difesa sono stranamente ammessi a deporre. Solo, morto e sfigurato contro i Giuda, questo è Attilio Manca.

Il suo corpo, nell’Etruria del III Millennio, in quell’aula di tribunale di Viterbo assurta a tomba della verità e necropoli della civiltà, in cui oltre al viso e alla dignità gli è stata cancellata l’identità di eccellente medico e uomo irreprensibile, costruita a fior di sacrifici, suoi e della sua famiglia siciliana, ricorda l’immagine dei cadaveri dei dittatori defenestrati o di esseri giustiziati con metodi selvaggi e ad altre latitudini, sui quali si accanisce la folla inferocita e senza pietà alcuna.

Un mix di violenza inaudita, un fuoco incrociato che giunge da tossicodipendenti o presunti tali e, cosa ancor più grave, da presunti fedelissimi al giuramento di Ippocrate: l’anatomopatologa Dalila Ranalletta. Eppure, nel processo a Bergamo sulla morte di Yara Gambirasio, la didascalica Dottoressa, perita della difesa, si era trovata dinanzi al fuoco incalzante delle domande del Pm Letizia Ruggeri che, nel pieno rispetto deontologico dei ruoli, aveva “sezionato” con estremo senso del dovere, le questioni concernenti il cadavere della giovane vittima. La Ruggeri, durante l’animata fase dibattimentale, a un certo punto, così si era espressa: “Mi conferma che la commissione Antimafia ha avuto dei problemi con lei?”.

E ancora: “Lei non ricorda che una sua perizia è stata definita negligente e insufficiente?”.

Per facta concludentia, anche a Bergamo qualche perplessità e qualche dubbio, sul merito di una perizia (e chissà quale perizia) della Ranalletta, consulente per il Tribunale di Viterbo, erano stati sollevati.

A Viterbo, nelle battute finali del processo a carico di Monica Mileti, presunta pusher che avrebbe fornito eroina ad Attilio Manca, la deposizione della dottoressa è andata liscia, nessun fuoco nemico, nessun duello con gli inquirenti: l’urologo siciliano sarebbe morto per droga, con buona pace di familiari, amici (quelli veri), colleghi, pentiti, Barcellonesi coinvolti a vario titolo in questa vicenda e opinione pubblica. E magistrati tutti!

Una domanda: chissà quanti anatomopatologi, dinanzi alle foto orribili del cadavere di Attilio Manca giungerebbero alla stessa conclusione dell’esperta dottoressa?

Chissà quanti la riconoscerebbero come “collega”?

E chissà quanti le assocerebbero una coscienza?

È lecito chiederselo? O no!

Cambiamo registro.

La centralità della persona è un fattore decisivo” così come un “lavoro prezioso” è la ricerca scientifica. Bellissime riflessioni! Se riferite, poi, al policlinico Gemelli indubbiamente sono onestamente meritate. Se pronunciate poi da un siciliano, e non uno qualunque, per noi siciliani è un vero onore: Sergio Mattarella, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università cattolica, qualche giorno fa a Roma. Se pensiamo, di contro, al vilipendio del cadavere del siciliano Attilio Manca, uomo di ricerca (anche al Gemelli), di studio, di vita e per la vita, e di speranza, allora, aspettando un monito anche dal Presidente della Repubblica Italiana, tra l’altro già da molto tempo sollecitato sulla quaestio, affiorerebbe un’altra tipologia di considerazioni. Di certo più amare e dolorose.

Così Gianluca Manca, fratello di Attilio:

“A Lei, Presidente siciliano, che rappresenta lo Stato, il dolore, la giustizia, e conosce le perverse logiche socio-culturali che umiliano la dignità dei disgraziati familiari delle vittime di mafia di quest’isola bella e dannata, chiedo:

non si ponga (almeno Lei) in una posizione di chiusura totale attraverso gli umili;

non si trinceri dietro i muri del palazzo istituzionale per non udire il loro urlo di sofferenza;

non chiuda con il Suo silenzio quella bara sul volto tumefatto di mio fratello che altri hanno già cercato di saldare per sempre con il metallo dell’ignominia;

porga la Sua mano a due genitori siciliani come Lei, stanchi di subire, inermi, una lapidazione decennale che li ha divorati nell’anima, nel cuore, negli affetti, nella vita.

Se ai loro occhi, se ai nostri occhi non è più data la possibilità di gioire dell’affetto del nostro congiunto, che ci resti se non altro, la speranza di poter guardare quelli onesti di un Presidente coraggioso che ci porga la mano”.

Caro Presidente, la sua Sicilia, almeno quella perbene e la sua Nazione, almeno quella perbene, sono in attesa, sul caso dell’urologo Attilio Manca, di un Suo segnale di apertura, di ascolto, di non silenzio, e di mano protesa a tutti i cittadini liberi di questa penisola.

Che questa vicenda, Caro Presidente, non diventi il punto di non ritorno della nostra democrazia o lo spartiacque temporale, giurisprudenziale e palese tra Istituzioni deviate e cittadini abbandonati nella zavorra della giustizia. E, soprattutto, che non diventi la forza di tanti Caini che assurgerebbero, di contro, all’etera dimensione dell’intoccabilità.