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fo dario cappello c ansadi Marco Travaglio
Caro Dario, da dove cominciamo? Dalla prima volta, una ventina d’anni fa nella hall di un alberghino di Palermo, quando tu e Franca da una parte e io dall’altra litigammo fino a notte fonda sul caso Sofri-Calabresi? O dall’ultima, un pugno di giorni fa, quando ci sentimmo per immaginare come sarebbe stata bella una serata di artisti per il No al referendum? “Marcoooo? Qui è Darioooo!”. Iniziavano sempre così le tue telefonate mattutine (si fa per dire, visti i nostri incompatibili fusi orari), con quella tua voce in falsetto, squillante di fanciullesca freschezza e traboccante di incontenibile allegria e gioia di vivere. Una voce che s’incrinava appena solo quando parlavi di Franca (“L’ho sognata anche stanotte, bellissima, lei mi leggeva il Fatto, poi scrivevamo un pezzo per voi…”). Ora che l’hai raggiunta in quel Paradiso che non ho mai capito se per te esistesse o meno, con la sua sciarpa rosa attorno al collo, posso finalmente dirti quanto orgoglio ci desse sapere che il Fatto era il tuo, il vostro giornale. E quale privilegio fosse mettere in pagina i tuoi, i vostri articoli. E quanta serenità ci trasmettesse sapere che ci tenevi la mano sul capo. Non perché tu fossi un premio Nobel, cosa di cui ridevi spesso per fugare anche il più remoto sospetto di esserti intrombonito (“Per me la censura delle mie opere nella Turchia di quel coglioncione di Erdogan vale più di cento Nobel”, dicevi un mesetto fa).
 
Ora che tutti – anche chi ti ha sempre detestato e censurato – ti celebrano – come sempre in Italia – da morto, anzi proprio perché sei morto, per noi sarai sempre il Dario vivo. Vivo più di quanto nessuno sia mai riuscito a esserlo. Ripetevi di essere un uomo fortunato, per aver potuto fare e dire tutto ciò che volevi, e non sai quanto siamo stati fortunati noi a condividere tanti minuti con te. Anche, anzi direi addirittura, sul tuo stesso palco. La prima volta fu al Palavobis di Milano, nel 2002, quando ci ritrovammo grazie a Paolo Flores d’Arcais nel più grande girotondo contro le leggi vergogna di B.: 40 mila persone dentro e il doppio fuori. Tu stavi poco bene, avevi dato forfait e invece arrivasti a sorpresa all’ultimo, inscenando un frammento dell’Ubu Bas. Alla prima milanese dell’Anomalo bicefalo, mi facesti organizzare un dibattito introduttivo con alcuni magistrati. E quando tu e Franca vedeste Armando Spataro, aveste un lampo improvviso: “Spataro? Ma lei non è quello che tanti anni fa voleva arrestare nostro figlio Jacopo? E vabbè, acqua passata… Miracoli di Berlusconi!”. Finì in un abbraccio fra voi tre.
 
Un’altra ancora in Valle di Susa, con i No Tav, insieme a Beppe Grillo e Marco Paolini. Senza contare le decine di repliche di Mistero Buffo in giro per l’Italia.fo dario maschera c ansa L’ultima fu qualche anno fa all’Auditorium di Roma. Dietro le quinte, prima di cominciare, Franca era esile e diafana come carta velina, la pressione a terra, in piedi per miracolo; tu, ormai mezzo cieco, fendevi le quinte aggrappato al braccio di una tua assistente. E noi seduti a bordo palco, perché la sala era tutta piena, a domandarci come avreste fatto, anzi se ce l’avreste fatta. Ma, appena si aprì il sipario, accadde il miracolo: tu cominciasti a saltare, cantare e ballare come una marionetta snodata, zompettando tra i cento personaggi del Bonifacio VIII e della resurrezione di Lazzaro; e Franca dritta come un fuso, elegante come una regina, a recitare Maria sotto la croce e le lezioni di orgasmo. Potere dell’arte e dell’adrenalina, che restituivano la vista e la grinta anche a Totò.
 
Mille sprazzi di memoria da un’amicizia nata per caso con quella litigata notturna, un’amicizia asimmetrica dove io prendevo e tu, voi davate. Soprattutto leggerezza. Pochi sanno quanto riuscisse a essere leggero un artista politicamente impegnatissimo come te. Libero anche dal tuo impegno e soprattutto dalla dittatura del politicamente corretto. Come quando fosti con noi nella difficile scelta di pubblicare a scatola chiusa il numero speciale di Charlie Hebdo dopo la strage in redazione. Quest’estate, il mattino dopo le polemiche sul presunto sessismo della vignetta di Mannelli sulla Boschi e “lo stato delle cosce”, al mio risveglio trovai la tua chiamata a vuoto sul cellulare: mi sa che Dario – mi dissi – stavolta non approva. Invece telefonavi per proporre un’intervista in difesa di Riccardo: “Marcoooo! Qui è Darioooo! Lo sai che devi fare? Devi scrivere in prima pagina a caratteri cubitali: ‘Scusate, rettifichiamo: la Boschi non ha le cosce, è puro spirito!’”. E giù quel bello sghignazzo rabelaisiano.
 
Molte cose vorrei dire del tuo impegno politico, costellato di qualche errore e di molti meriti: prima nella sinistra senza sigle, poi nei dintorni di Di Pietro e infine criticamente con i 5Stelle e convintamente per il No al referendum costituzionale. Ma oggi non è il caso: quel che volevi fare e dire l’hai fatto e detto tu, e di fronte alla tua grandezza ogni etichetta rischierebbe di rimpicciolirti. Questo vogliamo dire con la copertina-sberleffo “Vota Fo”: che hai sempre fatto politica contro ogni potere e mai da uomo di partito. E che, oggi più che mai, c’è bisogno di chi prenda non il tuo posto (mission impossible), ma almeno il tuo esempio. Infatti dal tuo impegno hai ricavato solo schiaffoni, insulti e censure, mai onori, prebende o poltrone. Quando ti davano del giullare e del guitto pensando di offenderti, ti facevi una bella risata e ringraziavi orgoglioso. Perché è questo che hai sempre sognato essere e, per tua e nostra fortuna, sei sempre stato. Ora, ovunque tu sia, continua – se puoi – a tenerci la mano sul capo. Salutaci Franca. E, se non ti dovesse servire, lancia giù la sua sciarpa rosa, ché qui fa freddino. Grazie.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Foto © Ansa