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orsatti pietro web2Eccolo nelle pagine di In Morte di don Masino
di Pietro Orsatti
È morto Bernardo Provenzano, uno dei capi della Cosa nostra corleonese più “anomali”. Di lui si può raccontare di tutto. Certo è che non fu mai solamente un killer della mafia siciliana. Il personaggio, che probabilmente rimarrà in gran parte non decifrato, era ben più complesso. Poco “viddano” dopo il ‘69 e molto “vecchia mafia” dopo la sua lunga latitanza a Cinisi sotto la protezione di Tano Badalamenti. Non ha parlato, zu Binnu. È morto dopo una lunga malattia senza svelare nessuno dei tanti misteri che si porta nella tomba. Primo fra tutti se fu lui, nel ‘93, se non a consegnare almeno a favorire la cattura del suo socio e rivale Totò Riina.

Il ragioniere di Cosa nostra con un patrimonio incalcolabile e svanito nel nulla come quello di Stefano Bontade. Dei suoi soldi la giustizia italiana ne ha rintracciati davvero pochi e confiscato solo gli spiccioli.
Un personaggio perfetto per il romanzo “In morte di Don Masino” che ho scritto per Imprimatur editore. E infatti è entrato a pieno titolo in molte delle pagine del lungo racconto.

Ripeto, un romanzo. Co gambe solide, ma sempre romanzo.

Qui ripropongo un capitolo dedicato interamente a lui…

***

Diciannove

Tratto da IN MORTE DI DON MASINO – di Pietro Orsatti Imprimatur editore 2016

Bernardo era terrorizzato. Se si scopriva che era stato lui a far quasi saltare l’operazione a Viale Lazio e a causare, con quella minchiata che aveva combinato, e provocando probabilmente anche la morte di Calogero Bagarella, Liggio lo ammazzava. E lo ammazzava pure Totò che a Bagarella lo vedeva come un fratello maggiore. Doveva fare di tutto per scaricare la colpa di quello che era successo su qualcun’altro. Su Damiano Caruso. Quello non contava una minchia ed era sempre uno che combinava guai. E poi chi se ne fotteva di uno degli uomini di Di Cristina. Ma la doveva montare bene quella storia. Fin da subito.

E da subito si era messo a parlare. Con gli uomini di Bontade che gli avevano spiato come era andata, e con Liggio. Totò non chiese nulla. Non poteva chiedere nulla. Era distrutto al solo pensiero di come raccontare a Ninetta, che se la stava a sposare povera ragazza, come era morto suo fratello. E parlava, Binnu, e raccontava che lui era stato costretto a sparare per una minchiata che aveva montato Caruso, che era colpa sua. E raccontava bene, Binnu. Convinceva. E infatti qualche mese dopo a Damiano Caruso lo ammazzarono come un cane anche per quella storia di Viale Lazio e lui si trovò discolpato. Almeno formalmente. Alla fine conveniva a tutti che fosse andata così. Soprattutto a Liggio, che avrebbe appoggiato qualsiasi cosa pur di danneggiare Di Cristina. E Caruso era persona di fiducia del boss di Riesi che commannava su tutta la provincia di Caltanissetta e si era affacciato anche a Palermo e il danno sarebbe stato grosso, alla fine, per chi si opponeva a Liggio e soprattutto a lui e Totò che Liggio lo stavano per mettere da parte. E Caruso poi era uomo che di minchiate ne aveva combinate assai. Uno che ammazzava ma faceva bordello, sanguinario, feroce, pazzo. Che il sangue gli saliva alla testa e lo trasformava in una bestia. Una bestia anche stupida. E come una bestia l’avevano ammazzatto.

Certo, due come lui e Riina, a Liggio dovevano tutto, ma Luciano non era più quello dei tempi dello scontro con Navarra. Mirava alto, Luciano, ma proprio non ci sapeva fare con quei cornuti di Palermo. Soprattutto con Bontade e gli Inzirillo. Troppo arrogante, troppo visibile, troppo rozzo nel gioco degli specchi che a Palermo nascondeva, e bene, il vero gioco del potere. E poi le femmine, troppe, e l’alcol e chissà che altro.

Ma per ora Liggio continuava a comandare, su lui e Totò. E ogni suo consiglio era legge.

“Binnu, tu vai a Palermo per qualche giorno. Ti riposi. Ti calmi. E poi vai a Cinisi e rimani tranquillo”, gli disse Liggio dopo qualche giorno che avevano sepoltodi notte Bagarella in una tomba senza nome nel cimitero di Corleone.

“A Cinisi? Con don Tano che ci vede a tutti come fumo negli occhi a noi di Corleone’”.

“Tu non ti preoccupare di Badalamenti. Quello ce l’ha con me, mica con te”.

E a Bernardo, spinto dalla necessità di trovare un posto sicuro e protetto anche dagli uomini di Di Cristina che quella cosa successa a Viale Lazio proprio non l’avevano mandata giù, non rimase altro che andarci a Cinisi. Senza sapere che sarebbe cambiato il suo futuro sia grazie a Tano Badalamenti, che a una ragazza. Saveria. Saveria Benedetta Palazzolo.

Sparava come un dio

Angelo Siino

Sparava come un dio ma aveva un cervello di gallina

Luciano Liggio, stessa affermazione fatta da Tommaso Buscetta

Bernardo aveva paura. Essere chiamato a incontrare quello che era il capo della commissione, e senza protezione alcuna, poteva significare tante cose. Ma soprattutto poteva rappresentare la fine della sua vita. Badalamenti non scherzava, se c’era da ammazzare uno si ammazzava rispettando regole e rituali. Ma sempre morto alla fine eri. E la polvere su Viale Lazio ancora non era calata come non era stata cancellata l’offesa fatta dai corleonesi di Liggio a Cosa nostra intera ammazzando il medico Navarra. Ma se doveva essere che fosse. Lui uomo d’onore era e se quel giorno c’era da morire sarebbe morto cercando di vendere cara la pelle se ce ne fosse stato bisogno e occasione. E seguì l’uomo di don Tano.

Badalamenti lo aspettava nel giardino di casa sua intento a innestare un albero di limone. Con un vecchio cappello di paglia a ripararlo dal sole e le maniche della camicia arrotolate. Si girò, il maturo capo di tutta Cosa nostra, e gli sorrise. E anche questo, a Bernardo, lo preoccupò non poco. “Questo oggi mi fa ammazzare”, pensò, e accettò il caffè sedendosi mentre aspettava che Badalamenti finisse il suo lavoro.

“Bernardo, guarda qui. Vieni a vedere. Questo è un lavoro delicato. Linfa nuova, selvatica, che va a sposarsi con quella vecchia e solida di una pianta matura”.

Provenzano si avvicinò a guardare l’abilità del boss nel fasciare l’innesto con un giunco.

“Aiutami, che così facciamo prima”, gli disse passandogli i rametti da innestare negli altri alberi del giardino. E senza scambiarsi una parola lavorano uno accanto all’altro per almeno mezz’ora. L’uomo che guidava Cosa nostra e il giovane di rispetto che stava per iniziare la sua scalata.

Si lavarono le mani e si rinfrescarono a una fontana che portava fresco al giardino. Acqua fredda, pulita. Come quella di Corleone, pensò Bernardo.

“Senti Binu – gli disse a un certo punto mentre passeggiando fra i limoni controllavano che il lavoro fosse stato ad arte come andava fatto – io capisco che a te che sei giovane e solo lontano da casa alle femmine di qui piaci assai. E che a tia le fimmine facciano sangue. Ma sei uomo d’onore e come tale ti devi portare”.

“Non capisco don Tano”.

“Ho saputo che fra quelle che vedi c’è anche una ragazza di famiglia buona assai. Di amici. Di uomini di rispetto”.

“Saveria”.

“La figlia di Palazzolo, che è come se fosse parente mia, Binnu. Mi capisci?”.

“Tutto qui?”, pensò Provenzano tirando un sospiro di sollievo.

“So che lei ti vuole bene assai. E che se vuoi continuare a vederla, alla figlia di Palazzolo, devi farlo secondo le regole, con rispetto, scordandoti le altre femmine e senza disonorare lei, la sua famiglia”. Don Tano fece una pausa cercando il suo sguardo. “E a me”.

“Don Tano, anche io voglio bene a Saveria, e voglio portarle rispetto”.

“Bravo”.

“E le altre femmine da quando ho incontrato a lei non le cerco più”.

“E questo è bene. Perché un uomo d’onore solo alla sua famiglia deve pensare e non alle altre femmine. Solo alla moglie e ai figli deve pensare se si vuole meritare il rispetto”.

“Vero è, Don Tano. Ma come facciamo io e Saveria? Io sono latitante, ricercato”.

“Qui sei in territorio mio e fino a quando lo dico io a te non ti cerca nessuno. Capisti?”.

“Ma i carabinieri…”.

“Tu non ci pensare ai carabinieri. Non qui, a Cinisi. Non finché comanno io”.

“E quindi come devo fare?”.

“Tu pigliati a Saveria e falla felice. Costruisciti la famiglia tua, Binnu. A Palazzolo ci penso io e ai fratelli suoi pure”.

“Ma c’è un cugino suo…”.

“E non pensarci al cugino, che se non capisce capisce lo stesso”.

Bernardo respirava, il pomeriggio stava rinfrescando, ma si sentiva come se avesse bevuto una bottiglia di vino di casa tutto da solo, a lunghe sorsate, dal caldo che sentiva dentro. Era vivo. E Badalamenti lo trattava come un picciotto di Cinisi. Come a un picciotto suo.

Si sedettero su un muretto a secco. Badalmenti si accese una sigaretta e passò il pacchetto a Provenzano.

“Tu non sembri un uomo di Liggio. Anche se di minchiate con Liggio ne hai fatte anche tu”.

“Eccolo”, pensò Provenzano sentendo il gelo irrigidirgli la schiena.

“Lo so che quando ammazzarono Michele Navarra c’eri anche tu, Binu. Non te ne faccio una colpa. Obbedivi a un ordine, anche se Michè era amico mio da sempre, non posso avercela con te. Ma con Liggio si. Lo sa lui, lo so io”.

Doveva pensare velocemente, Bernardo. Pensare e stare zitto. Lasciare che don Tano parlasse, perché aveva solo iniziato. E lì si giocava la vita sua, la vita di Bernardo Provenzano nato contadino da figli di contadini a Corleone.

Tratto da: orsattipietro.wordpress.com