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ingroia antonio big7di Antonio Ingroia
Antonio Padellaro ricorda la festa del Fatto del settembre 2012, quando furono consegnate a me e Nino Di Matteo le 153.770 firme raccolte dal giornale in segno di solidarietà. Non dimenticherò mai la fiducia dimostrata con quelle firme, ma non dimentico neppure che quella scelta ci scatenò addosso polemiche e attacchi, minacce di procedimenti disciplinari, critiche feroci dalla politica ma anche da parte di tanta magistratura, compresa l’Anm. Una conferma che il processo di soffocamento della verità si era consumato, nonostante quelle firme.

Mi spiego meglio. Io non ho scelto la magistratura per essere quel “bravo magistrato”, di cui ha nostalgia Padellaro, ma perché volevo essere utile ai cittadini. E avendo avuto il privilegio di imparare il mestiere da due grandi maestri come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e avendoli visti uccisi pochi anni dopo, ritenni che potevo davvero essere “utile” solo facendo luce sulla stagione terribile delle stragi. In questo contesto si spiegano le indagini e i processi di quegli anni, da Contrada a Dell’Utri, conclusi con sentenze definitive di condanna, fino all’indagine più importante che ci ha messo davanti alla verità più terribile: Falcone, Borsellino e le vittime delle stragi del ’93 erano morti sull’altare del più osceno patto criminale della Storia, quello di uno Stato che trattava con la mafia alti livelli solo per salvare qualche politico e sacrificando altre vite. In qualsiasi altro Paese un’indagine del genere avrebbe provocato un terremoto: commissioni d’inchiesta, dimissioni di ministri e presidenti, sostegno alla magistratura. Qui è accaduto il contrario, alla sbarra sono finiti i magistrati, messi sotto accusa dalle istituzioni che avrebbero dovuto sostenerli, compreso il Csm.

Compresi allora che la partita era persa. Dopo una fase di grande spinta, che aveva fatto emergere verità inimmaginabili, l’indagine era stata bloccata dalla politica. Capii che la magistratura da sola poteva fare ormai poco. E ritenni che rimanere in trincea a difendere il nostro lavoro non sarebbe bastato. Io non sono abituato a difendere, in trincea non ci so stare. Devo attaccare. Bisognava cambiare strategia e terreno di scontro, provare a cambiare la politica per liberare la magistratura dall’assedio. Nacque da lì l’idea di Rivoluzione Civile, un tentativo incompiuto. Il risultato di quasi un milione di voti ottenuti in soli due mesi, si rivelò poi insufficiente a causa di una legge elettorale incostituzionale, ma era un tentativo che andava comunque fatto.

E oggi faccio l’avvocato, e continuo a occuparmi di politica con un movimento, Azione Civile, in prima linea nelle battaglie per i valori in cui ho sempre creduto, a cominciare dalla difesa della Costituzione, ancora oggi sotto assedio. E da avvocato cerco di rendermi utile aiutando i cittadini vittime di ingiustizie. Per questo difendo Pino Maniàci, ma anche Ivano Marescotti contro la censura politica della Rai, così come tanti cittadini vittime del sistema bancario, e mi occupo ancora degli intrighi criminali intorno alla trattativa Stato-mafia, come l’orribile depistaggio di Stato nel delitto di Attilio Manca, presentato come una morte accidentale.

Su una cosa però non accetto illazioni: che possa avere fatto tutto solo per fare carriera. Semmai è vero il contrario, perché ho lasciato una carriera “facile” da magistrato quando ho capito che lì non c’era più spazio per portare avanti le mie battaglie. Così come ho rifiutato facili poltrone parlamentari sotto le bandiere di questo o quel partito. Ho preferito continuare a combattere in altro modo battaglie di giustizia e di diritti, pur sapendo di sacrificare la “carriera””. L’ho fatto e lo rifarei. Con legittimo orgoglio.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 14 maggio 2016

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