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moro-aldo-rossedi Stefania Limiti e Sandro Provvisionato - 17 aprile 2015
L’intervista che segue è stata rilasciata nei giorni scorsi dal generale Nicolò Bozzo, braccio destro di Carlo Alberto dalla Chiesa, a Stefania Limiti e Sandro Provvisionato, autori di “Complici, il caso Moro e il patto segreto tra Dc e Br” (Chiarelettere) da oggi in libreria. Un’intervista del generale Bozzo era già presente nel libro, ma il 4 aprile ha richiamato gli autori per fare un’aggiunta alle sue dichiarazioni che, per motivi tecnici di stampa, non ha trovato spazio nel volume.

Alla prigione, in quel posto dove Aldo Moro fu portato, potevamo arrivarci, l’avevamo scoperta. Addirittura prima che il sequestro di Moro avvenisse”.

Parla di via Montalcini?
“Sì, parlo proprio di quell’appartamento”.

Nicolò Bozzo, classe 1934, porta con sé il peso di anni faticosi passati dentro l’Arma, al fianco di Carlo Alberto dalla Chiesa. Per conto di Dalla Chiesa coordinò tutta l’operazione di via Monte Nevoso dove il 1° ottobre 1978 fu scoperto l’archivio delle Br, carte di Moro comprese, e dove furono arrestati due dei 4 componenti dell’esecutivo terrorista (Azzolini e Bonisoli) oltre a una militante (Nadia Mantovani). È un galantuomo Bozzo, ed è sempre stato dalla parte della Repubblica democratica. Tanto da prendere la coraggiosa decisione, nel 1981, quando le istituzioni erano incistate di piduisti, ufficiali infedeli e mercenari della destabilizzazione, di rendere una testimonianza spontanea ai giudici di Milano Giuliano Turone e Gherardo Colombo che stavano indagando sul crac del banchiere Michele Sindona.

Generale, si spieghi meglio.
“Circa tre mesi prima del sequestro di Aldo Moro, all’epoca io ero colonnello, un mio ufficiale mi chiese di aiutarlo a cambiare sede. Era a Milano e suo figlio, diciottenne, aveva preso a frequentare un brutto giro di estremisti di sinistra e temeva che finisse nei guai. Quell’ambiente non gli piaceva affatto, anzi lo preoccupava. Domandai a Dalla Chiesa di poterlo trasferire, ma non riuscii ad accontentarlo perché il generale suggerì, al contrario, di aspettare per vedere se potevamo ricavarne qualche informazione. Andò così e, di lì a poco, venne fuori che gli amici di suo figlio gli avevano chiesto una mano: fare un lavoro di muratura dentro un appartamento a Roma”.

Quello di via Montalcini?

“Sì, proprio quello”.

Lei, anni fa, in un’audizione da- vanti alla Commissione stragi, ha già raccontato di un infiltrato da cui apprendeste che era in preparazione una grossa azione terroristica a Roma contro un uomo politico di alto livello. Lei raccontò che vi era arrivata la notizia che la colonna romana delle Braveva chiesto l’aiuto di “un compagno muratore” che si sarebbe dovuto recare nella Capitale per costruire un muro, una paratia. Perché in quell’occasione non disse che il luogo era via Montalcini?
“Al contrario. L’opinione pubblica non lo seppe mai, ma le nostre informazioni furono trasmesse a chi di dovere, eccome se furono trasmesse! Pensammo che fosse in preparazione una cella per un sequestro di persona. Andai io personal- mente dal capo di Stato maggiore dell’Arma, il generale Mario De Sena. Gli raccontai tutto, per noi era una notizia importante, ma lui, alla napoletana, mi rispose: ‘Guagliò quello delle Brigate rosse è un problema vostro, del Nord, qui a Roma di Brigate rosse non c’è traccia’. In pratica sottovalutò quella notizia, e con ciò non intendo dire che non volle approfondirla, in quel momento erano convinti che la Capitale non correva grandi pericoli. Subito dopo, però, ci fecero il vuoto attorno”.

È noto che anche il capo dell’Antiterrorismo, Emilio Santillo, inviò un appunto al capo della polizia Angelo Vicari, poco prima del sequestro Moro, per informarlo che da una loro fonte qualificata avevano appreso che era in corso il progetto di rapire un importante uomo politico a Roma. Ed è noto anche che il segretario socialista, Bettino Craxi, disse in una intervista, tempo dopo la fine della vicenda Moro, che tra le tante segnalazioni arrivate anche alla signora Vittoria Leone, la moglie del presidente della Repubblica, c’era anche quella di via Montalcini.

Generale non crede che avreste dovuto denunciare le vostre informazioni in modo più prepotente durante quei drammatici 55 giorni, pretendendo che almeno si controllasse quell’appartamento?

“Penso che Dalla Chiesa e io facemmo il nostro dovere. Tra l’altro non toccava a me riferire alle autorità ma a Dalla Chiesa e io non so se il generale lo fece. Di più non potevamo fare. Riferimmo tutto ai nostri superiori gerarchici. Dirò di più: il generale, con lo scopo di dare man forte al comando generale dell’Arma, mi spedì a Roma. Vi rimasi dieci giorni durante i quali non mi fecero fare nulla. Passavo le giornate con le mani in mano”.

Perché racconta questo episodio solo ora, dopo tanti anni?

“Perché ho maturato la convinzione che sia giunta l’ora di spostare un po’ più avanti la ricerca della verità sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. E credo che la nuova Commissione d’inchiesta possa farlo. Se saltasse fuori ancora qualche piccolo pezzo di verità, sono convinto che verrà giù tutto”.

Anche lei è convinto che ci sia ancora molto da scoprire?
“Sì, penso proprio di sì”.
 
Tratto da: Il Fatto Quotidiano