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disonore-al-meritodi Emiliano Liuzzi e Ferruccio Sansa
Poliziotti che hanno denunciato i superiori, finanzieri anti-slot, dirigenti che scoprirono spese pazze o cemento. Nessun premio, solo guai
Non pretendevano un premio. Hanno fatto il loro dovere, qualcosa di più. Certo, non immaginavano di essere puniti. Di arrivare a vedere i sorci verdi. Fino quasi a essere spinti ad abbandonare il lavoro, la passione cui avevano dedicato la vita: sono poliziotti, finanzieri, dirigenti pubblici, sportivi. Eppure non mollano. Filippo, il poliziotto che crede nella legge Chiedetelo al vice-questore Filippo Bertolami. Il 18 febbraio ha ricevuto una lettera del capo della Polizia, Alessandro Pansa. Una sorpresa per Bertolami. Soprattutto il contenuto: “Sospensione cautelare dal servizio per gravi motivi disciplinari”. No, non l’avrebbe mai detto, Filippo.

Lui che è poliziotto fino all’ultima fibra. Non di quegli sbirri con la pistola sempre in mano. La sua arma è la legge, il rispetto delle regole. Uguali per tutti. Che tu sia un criminale o un agente di divisa. Non fa sconti a nessuno. Gira con una ventiquattrore piena di carte, di codici. Ecco il punto: Bertolami è quello che certi colleghi chiamano un “rompicoglioni”. In quindici anni di impegno ha portato alla luce scandali di ogni tipo. Prendete la storia delle telecamere e degli scanner contro gli attentati a Termini, Palazzo Chigi e in Vaticano. Da anni c’è chi lo sussurra: la maggior parte non funziona. Se arrivassero i terroristi potrebbero passare indisturbati. E Bertolami, cerca, indaga, scopre, finché non denuncia la storia davanti alle telecamere di Piazza Pulita. Dunque, che cosa è peggio: che i sistemi di sicurezza abbiano delle falle o che un poliziotto lo denunci sperando che qualcosa cambi? Decidetelo voi. È solo l’ultimo colpo di Bertolami. Prima – lui che ha due lauree, master e dottorato di ricerca non ha mai avuto una macchia in carriera – dall’Unità nazionale CEPOL della Scuola di Perfezionamento delle Forze di Polizia si era scagliato contro l’uso dei fondi nazionali ed europei: “Abbiamo una struttura provvista di tutto e esternalizziamo il servizio interpreti, il catering e le navette per gli ospiti. Perché?”. Altre rogne. E che dire delle polemiche – sempre sollevate da Bertolami – sugli investigatori anti-mafia che dopo aver compiuto operazioni clamorose a Latina e Ostia si ritrovarono scaricati dai loro vertici? E via, salendo fino a toccare i piani più alti della polizia. Fu Bertolami a tirare fuori la storia della case blu per i vertici della polizia. Uno fra tutti, Andrea De Gennaro – generale della Guardia di Finanza a capo della Direzione centrale per i servizi antidroga – che in pratica ricevette le chiavi di casa dal fratello Gianni quando lasciò la poltrona di capo della Polizia. Ancora: fu Bertolami, come sindacalista [ rappresentante del sindacato di Polizia, Italia Sicura ], a denunciare promozioni o sorprendenti avanzamenti in graduatoria di poliziotti indagati o condannati. Magari per i fatti del G 8. Un gran rompicoglioni Bertolami. Come quando svelò la storia di quel vice-questore di punta rinviato a giudizio per il pestaggio del tifoso Stefano Gugliotta, ma lo stesso volato dal 299 ° al 47 ° della graduatoria per accedere alla scuola questori. Oppure quando ricostruì, carte alla mano, che il vicecapo della Polizia, Alessandro Marangoni, sostenne per la promozione a dirigente il commissario V., già condannato nel 2010 a un anno e 10 mesi per avere rilasciato il porto d’armi ad Andrea Calderini, il trentunenne che nel maggio 2003 uccise nel suo palazzo di Milano la moglie e una vicina di casa e poi sparò dal balcone ferendo gravemente tre persone prima di togliersi la vita. “La condanna – denunciò all’epoca Bertolami – comporta l’applicazione nei confronti del funzionario, ove già non ricorrano i presupposti per l’applicazione di un’altra sanzione disciplinare, della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione in proporzione all’entità del risarcimento. E, non avendo ottemperato a questo obbligo, lo stesso Marangoni anziché essere promosso prefetto, avrebbe dovuto essere sospeso dal servizio con privazione della retribuzione”. Insomma sulle ali di quella segnalazione di Marangoni il commissario V. volò dal 728 ° al 42 ° posto e divenne dirigente. Chissà. Una cosa è certa: facendo il proprio dovere Bertolami si è fatto un mare di nemici. E adesso ti mette sotto gli occhi una sfilza di lettere. Ricevute tutte le stesso giorno: primo, la richiesta di destituzione. Come dire, addio divisa. Il motivo? Le dichiarazioni rilasciate a Piazza Pulita sulla scarsa sicurezza di luoghi dove passano migliaia di persone. Inutile eccepire che la stessa emergenza era nota da anni. Poi ecco il decreto di sospensione dal servizio. Quindi: restituire pistola e manette, percepire solo il 50 per cento dello stipendio – la metà di circa 2. 500 euro. Motivo? Aver puntato il dito contro la presunta malagestione dei fondi, contro gli sprechi. Per firmare la richiesta si è scomodato direttamente il capo della Polizia, Pansa. “Farò ricorso perché non è compito suo, spetta al ministro”, avverte Bertolami. Basta? Neanche per idea. C’è anche una richiesta di trasferimento. E infine una richiesta di pena pecuniaria (pure questa firmata da Pansa). Quattro spade di Damocle: “Ci sarebbe da mollare tutto, la divisa”, dice. Ma non abbassa lo sguardo. E subito aggiunge: “No, ne voglio uscire. E a testa alta. Non andrò indietro di un millimetro” e Franco Picardi del sindacato PNFD incalza: “Il Capo della Polizia ha compiuto un grave abuso, useremo tutti gli strumenti a disposizione dell’ordinamento per far reintegrare il collega, altrimenti destituiteci tutti!” La dirigente sarda contro gli sprechi Se oggi si parla degli sprechi delle Regioni, delle ruberie dei consiglieri regionali, delle spese in hotel, biancheria, televisori, giocattoli erotici, dalla Lombardia alla Sicilia, lo si deve anche al coraggio di Ornella Piredda. Nel 2008 era una semplice dipendente della Regione, poteva mettersi in coda anche lei e raccogliere le briciole, invece andò dai magistrati a denunciare i ladri. Piredda è un’ex dipendente del Gruppo misto e ha svelato il metodo paghetta: non rimborsi su fatture e scontrini di spese destinate ad attività istituzionali, ma un tot fisso assegnato a ciascun onorevole. Circa 2. 500 euro. Ma non solo. Ha svelato un sistema che non conosceva limiti né ritegno. In Sardegna i consiglieri regionali si erano fatti addirittura una legge su misura per far sparire i soldi: non sarebbe stato obbligatorio presentare una giustificazione. Andavano, prendevano i quattrini pubblici e spendevano a loro piacimento. Poi è intervenuta la Corte costituzionale. E le denunce di Piredda che hanno aperto una luce su una realtà che non era solo quella della Sardegna, ma di tutta Italia. Più volte ha ribadito e denunciato di esser stata demansionata sul posto di lavoro per la sua insistenza a chiedere la rendicontazione delle spese. Nessuna solidarietà dai colleghi, figuriamoci. La battaglia l’ha condotta in totale solitudine. E alla fine l ’ ha anche vinta, sul piano pubblico, non su quello personale, perché in quegli anni ha subito di tutto e di più. Ha fatto solo quello che chiedeva la legge, ma si è scoperta sola. Ma la sua resta una bella storia di giustizia. Rapetto, finanziere contro i signori delle slot Umberto Rapetto e i suoi uomini del Nucleo Speciale Frodi Telematiche della Finanza. Questa squadra di geniacci – pagati poco più di mille euro al mese – nel 2006 si trovò tra le mani l’inchiesta della Corte dei Conti contro le concessionarie delle slot. Rapetto e i suoi lavorano fianco a fianco con il pm Marco Smiroldo, un coraggioso giudice ragazzino, ma con le spalle tanto larghe. Devono contrastare interessi fortissimi. Dopo lunghe indagini arrivano a quantificare il danno subìto dallo Stato per il mancato rispetto della concessione da parte dei signori delle slot. La cifra richiesta non ha uguali nella storia d’Italia: 98 miliardi. Sarà una battaglia dura, che andrà avanti per anni. Alla fine nelle casse pubbliche entreranno 400 milioni. Meno dello 0, 5 % della somma richiesta. Comunque un simbolo dell’impegno di questi uomini. Del fatto che non esistono intoccabili. Ma per Rapetto e gli altri il prezzo da pagare è stato alto, come l’ufficiale ha detto davanti ai magistrati milanesi: “Posso dire che il nostro Comando Generale ha sempre cercato di orientarci verso il disimpegno da queste indagini, anche attraverso note formali che contestavano l’assenza di una nostra competenza in materia… ilpm Smiroldo non accolse l’invito verso il quale fu anzi molto critico, pregandomi di segnalare a lui eventuali tentativi di interferenza con le indagini da parte dei miei superiori”. Undici interrogazioni parlamentari hanno chiesto chiarimenti su quello che è successo, sulle pressioni ricevute dai finanzieri impegnati nell’inchiesta sulle slot. Oggi Rapetto ha lasciato la Finanza dove era entrato a sedici anni. Altro che premi. Danilo Palmucci l’atleta pulito e mazziato Nell’ambiente tutti sapevano che c’era chi assumeva medicinali per aiutarsi nelle gare sportive. Lo si faceva all’estero, e lo si faceva anche in Italia. Ma era il 1997 e i controlli sugli atleti, che fosse ciclismo o culturismo, erano meno severi. Danilo Palmucci, Ironman romano con alle spalle decine di medaglie vinte nel triathlon, fu il primo, nella sua disciplina, a chiedere che gli esami pre campionato fossero più stringenti. Ma quella richiesta, che contribuì a fare luce sul complesso sistema del doping nello sport agonistico, l’ha pagata a caro prezzo. “A luglio del 1997”, ricorda Palmucci, “chiesi che gli atleti che dovevano gareggiare ai campionati mondiali di triathlon si sottoponessero ai controlli del sangue, quelli che per intenderci oggi si fanno ai ciclisti. Il triennio tra il 95 ’ e il 97 ’, del resto, lo ricordo come un periodo buio, dove non c’erano limiti sull’uso di determinati farmaci, e quando partecipavo alle gare vedevo atleti che non stavano bene, che dovevano essere ricoverati. Quindi pensai di proporre quella soluzione, sia per difendere la nostra immagine di campioni italiani, sia per tutelare la salute stessa di chi gareggiava”. Palmucci raccontò che pure nel triathlon il ricorso a sostanze dopanti era diffuso, fece nomi e cognomi, ma per la sua denuncia fu querelato. “In tribunale ho vinto, ma la mia immagine ne è uscita rovinata, in primis a causa della stampa sportiva”. Nicoletta: no al cemento e finisce all’ufficio animali Il 21 ottobre 2014 boccia il progetto per un centro commerciale delle Coop con annesso grattacielo da costruire a due passi dal Bisagno che un anno sì e l’altro pure provoca disastri. Il 6 novembre la Giunta di centrosinistra della Regione Liguria la trasferisce all ’ ufficio che si occupa di cani e gatti. Nicoletta Faraldi, 62 anni, è dirigente della Regione Liguria. I suoi colleghi la definiscono: “Il rigore fatto persona”. Faraldi racconta: “Sono in Regione dal 1981, mai avuto problemi. Amavo il mio lavoro, finché si basava sulle leggi, sulla tecnica”. Fino a quel parere: “Si dichiara inammissibile la variante relativa al centro funzionale in esame”. Addio centro commerciale, addio grattacielo. Sono in una zona a rischio. Ma Nicoletta finisce all’ufficio animali. Ceci, il bancario contro i “giganti” Altre carenze, ma in ambito diverso, sono quelle denunciate da Enrico Ceci, ex dipendente della filiale di Parma del Banco di Desio, che nel 2008 scoprì, a soli 21 anni, una falla nel sistema informatico dell’istituto di credito, che consentiva di accumulare somme di denaro non tracciato. Ceci, quindi, dopo essersi rivolto ai suoi superiori decise di denunciare, tramite alcuni esposti, le irregolarità riscontrate, tra cui il riciclaggio, ottenendo che sia la magistratura, sia la Banca d’Italia indagassero. Nel 2013, Bankitalia ha sanzionato tutti i membri del consiglio di amministrazione di Banco Desio per aver sottovalutato “le condotte poste in essere dagli ex esponenti di vertice e dai dipendenti delle controllate Desio Lazio e Cpc di Lugano.” Mentre nel 2014 il Tribunale di Roma ha accolto i primi patteggiamenti di due banche del Gruppo, nonché dell’ex amministratore delegato di BancoDesioLazioRenatoCaprile, 2 annie 10 mesidi reclusione e 1. 400 euro di multa a fronte di un’imputazione per riciclaggio, reati tributari e appropriazione indebita. Quanto a Ceci, però, il lavoro l’ha perso. Secondo il tribunale di Parma avrebbe “leso il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore”.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 16 marzo 2015

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