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battaglia-letizia-mareL’intervista
di Mario Di Caro - 1° marzo 2015
Autoritratto della fotografa: “Ho provato ad andarmene ma mi sento una sentinella”
Il bambino con la pistola, Bagarella ammanettato, la vedova Schifani a occhi chiusi: gli ottant’anni di Letizia Battaglia sono un flash che riapre d’improvviso un album di immagini consegnato alla memoria e al presente della città. È un diario di corpi, vivi e morti, che adesso riprende vita parlando degli anni di piombo come della rinascita, dell’infanzia violenta e delle strade di frontiera. È la Palermo raccontata dietro il suo obiettivo, così atroce e così tenera, e che le si è ormai appiccicata addosso fino al punto di segnarne vita, lavoro e fortuna.
Non è un caso se la parete accanto alla scrivania, dietro la quale la fotografa si siede per l’intervista, è dominata dalla foto della ragazzina col pallone, forse il suo scatto più celebre. I postumi di una bronchite non sono riusciti a intaccare un cuore da ragazza che ama, si indigna, progetta con l’intensità di sempre: il regalo di compleanno che sogna per giovedì, giorno dell’anniversario, è il Centro internazionale per la fotografia ai Cantieri della Zisa, un laboratorio- scuola-museo che accarezza da anni.

Prima di celebrare la fotografa Battaglia, parliamo di Letizia: il fatto di essere diventata moglie e poi madre a soli sedici anni, di avere avuto legami importanti, così presto, ha forgiato questo suo modo generoso di amare cose e persone?
«Io ho amato sempre così, sin da bambina, con un’apertura che nessuno poteva togliermi, anche se ci hanno provato - risponde con voce arrochita - Sono felice di essere stata madre a 16 anni e sono felice di avere cinque nipoti. Ho vissuto la guerra, a Trieste, a Napoli, ho attraversato tante cose che non hanno intaccato la mia capacità di essere aperta nei confronti degli altri, di perdonare il male che mi veniva fatto. Io sono così».

E Palermo quando ha scoperto di amarla?

«Tardi. Io sono sempre fuggita da Palermo: da giovane la detestavo perché Palermo mi voleva obbligare a essere quello che non volevo essere. È stata la fotografia a farmela accettare, a farmela conoscere, a farmici entrare dentro perché quando fotografi devi stare attenta. Io sono prigioniera di Palermo: ho provato ad andare via, a Milano, a Parigi, ma ho capito che devo stare qui, come una sentinella».

E tanto amore è ricambiato?
«Non ho ricevuto amore da Palermo, no. Forse quando ero assessore al Verde e giravo per risolvere problemi, sì, in quel caso ho sentito l’amore della gente ma oggi no e forse non ne ho più bisogno. Io a Palermo ci sto senza amore, come quando rimani con un marito che non ti ama».

Si ricorda la prima volta che ha usato la macchina fotografica?
«Era il 1971, ero a Milano e fotografai Pier Paolo Pasolini che partecipava a un convegno. Quello fu un colpo per me: non ero ancora una fotografa, era la compagna di Santi Caleca. Lo amavo moltissimo Pasolini: gli scattai un rullino tremando perché mi emozionava la sua grandezza. Poi misi da parte quelle foto che ora sono esposte nella casa della madre di Pasolini».

Saltiamo al 6 gennaio 1980: che effetto le ha fatto rivedere la foto del neo presidente della Repubblica che tira fuori dalla macchina il cadavere del fratello, Piersanti Mattarella?
«Quel giorno scattavo foto con Franco Zecchin sapendo che era un fatto importante, avevano ucciso il presidente della Regione. Ma oggi quella foto acquista un altro significato, sento l’importanza di aver immortalato un presidente della Repubblica nella giornata più terribile della sua vita: oggi quella foto mi scappa di mano, va via ed entra nella Storia. L’elezione di Mattarella mi ha fatto molto piacere perché è come se si fosse chiuso un cerchio: è come se Chinnici, Costa, Falcone e Borsellino avessero avuto in qualche modo giustizia. La sua elezione è un po’ di giustizia per noi siciliani. Mi aspetto che sia un presidente rivoluzionario».

Ma queste foto degli anni di piombo sono per lei come dei fantasmi che ogni tanto la tormentano?
«Quando ho fatto mostre e ho ripreso in mano queste foto ho risentito il senso di nausea che provavo quando lavoravo per la cronaca. E ho cercato di distruggerle facendo delle rielaborazioni, mescolandole con dei nudi femminili, simbolo di vita».

È vero che quando fotografava gli arrestati in manette avvertiva la sensazione di ingaggiare con loro un duello impari?
«Io dovevo fare le foto per “L’Ora” e guai se non portavo le stesse immagini, se non migliori, di quelle del “Giornale di Sicilia”: ma quando mi ritrovavo davanti agli ammanettati sentivo che li stavo offendendo perché non eravamo alla pari. Io ero lì come una stronza con la macchina fotografica e loro incatenati: e allora dovevo espormi fotografando accovacciata, dovevo farmi vedere, dovevano sapere che ero io».

Uno di quelli, una volta, era il boss Leoluca Bagarella...
«Bagarella passando davanti a me ammanettato mi diede un calcio e io, accovacciata, caddi all’indietro».

Perché decise di fare un’esperienza politica?
«Era il 1985, avevo già fatto tante cose, avevo vinto un premio importante e capii che con la fotografia avevo chiuso un capitolo e che dovevo fare di più. Entrai nei Verdi, fui eletta e diventai assessore. È stata la parte più bella della mia vita: togliere la spazzatura dalle strade è stata la cosa più importante che ho fatto. Fare il deputato regionale, invece, non m’è piaciuto: di buono c’erano solo i soldi».

Con quei soldi è nata la sua casa editrice.
«Le Edizioni della Battaglia, maanche la rivista Mezzocielo: di quei soldi non mi è rimasto nulla. La casa editrice nacque per dare voce alla rabbia dopo le stragi del ‘92: la inaugurò Michele Perriera con un testo di poche paginette, “Oltre il disgusto”. A me piace raccogliere le idee degli altri attorno a qualcosa».

Lei ha incontrato tanti grandi personaggi: cominciamo da Ezra Pound.
«Andai con Emilio Isgrò a Venezia e vidi quest’uomo con una barba da Leonardo da Vinci, di una tristezza struggente. Mi guardò e mi misi a piangere: mi si sciolse tutto il trucco».

Josek Koudelka.
«Gli devo riconoscenza, per il solo fatto di esistere, perché è un esempio di probità. Ha frequentato la mia casa per diciott’anni: veniva per fotografare il manicomio dove ero stata volontaria. Stava ore per fare una foto».

Wim Wenders.
«Mi chiamò e disse: “Non posso fare un film su Palermo senza di te”. Delizioso, gentile, paziente».

Michele Perriera.
«Lo ricordo magro, piccolino, alla libreria Flaccovio negli anni Sessanta. Quando mi disse, nel ‘78, che stava facendo una scuola di teatro, io gli chiesi se a 40 anni potevo frequentarla anch’io. Quando mise in scena “Morte per vanto”, l’attrice lo piantò in asso e tre giorni prima del debutto mi chiese di sostituirla. È stato un altro grande sostegno».

Giovanni Falcone.
«Non voleva mai farsi fotografare, soprattutto in posa. Sapere che c’era Giovanni Falcone in questa città, da qualche parte, era rassicurante».

Chiudiamo con Leoluca Orlando.
«Gli sono fedele e grata per quello che ha fatto per Palermo. Lo sento amico anche se non ci frequentiamo».

Mancano le donne da questa galleria: oggi le siciliane hanno fatto passi avanti nel cammino di uguaglianza?
«No, le lotte non sono servite a niente, perché le donne di questa città hanno maggiore libertà ma non sono impegnate, sono indifferenti a tutto. È il vestito che conta, e basta. Sì, ci sono donne che fanno la resistenza, che hanno fatto strada, ma la città nel complesso è ignorante. Anche per questo voglio creare questo Centro di fotografia ai Cantieri: chiederò ai grandi fotografi del mondo di donare una foto su Palermo. Ma bisogna fare presto, perché ho paura di perdere le forze».

Tratto da: La Repubblica-Palermo 1° Marzo 2015

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