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garofalo w-300x224di Santo Della Volpe - 31 dicembre 2014
Si chiude un anno difficile per il nostro Paese, dove a brillare, però, ci sono sempre loro, le stelle, le donne dell’antimafia. E’ il loro coraggio, il loro sacrificio, la loro ricerca di Giustizia e Verità che spinge verso la speranza. Lea Garofalo, che ha finalmente avuto Giustizia anche nelle aule dei tribunali, sino in Cassazione (e sarà importante leggere le motivazioni della sentenza della Corte Suprema); Denise, sua figlia, emblema del coraggio di vivere e di denunciare, di cambiare verso alla corrente della rassegnazione che sembra, talvolta, voler diventare il senso della normalità in un paese stanco: Denise e la sua forza, Lea e la sua speranza tradita da miserabili assassini. E poi la voglia di un avvenire diverso, la speranza gridata dalle tante donne che hanno deciso di uscire dal ghetto delle mafie: basta leggere il bellissimo libro di Maria Stefanelli, scritto con Manuela Mareso, “Loro mi cercano ancora”, per capire cosa significa, quali tensioni, paure, inganni devono affrontare le donne che vogliono dire basta alla violenza delle mafie ed alla sub cultura di silenzio e rassegnazione imposte soprattutto a loro, alle donne, in quel sistema criminale che, proprio in questo 2014 appena passato, sembra voler avvolgere la democrazia di questo nostro Paese per chiuderne spazi di cultura e sviluppo. Invece sono queste donne e tutte le donne che ogni giorno si ribellano e si affrancano rompendo, spesso a caro prezzo, vincoli familiari e di sangue a dare la speranza che, alla fine, anche nell’anno che verrà, ci sarà un pezzo di speranza in più, un altro mattone di Legalità posato nella strada verso la liberazione dalle mafie. Perchè è la loro fatica ad uscirne, la loro sofferenza, a dare forza a chi si sente solo o che pensa di non farcela a denunciare illegalità, ferocia mafiosa, corruzione. Per capire cosa significa, basta leggere un brano del libro di Maria Stefanelli quando le autrici scrivono che il sistema di obbedienza ed abnegazione imposto dalla ‘ndrangheta “è la tradizione di una cultura, di un sistema di valori, ma anche una giustificazione del proprio vissuto e della propria incapacità di ribellarsi: se così è stato per loro (la mamme, le zie, le nonne, ndr), così allora deve essere. E’ questo a renderci deboli, ad atomizzarci, a lasciarci ognuna per la propria strada, ancora più vulnerabili ai soprusi degli uomini e dell’organizzazione. Se subisci violenza stai zitta, perché vedi che è così anche per le altre, sai che nessuno ti può aiutare. E se tua figlia ha subito violenze,non la soccorrerai, perché così è stato per te. Una spirale che si avvita all’infinito e che nella’ndrangheta solo in poche hanno avuto il coraggio di spezzare. Chi l’ha fatto ha pagato con la vita”. Parole che, asciutte e taglienti come lame, fanno capire il dolore, la sofferenza delle tante donne come Lea, Maria, Denise che in modo diverso hanno rotto quel mondo per affermare la normalità e la legalità. Un invito a tutti noi: per continuare ad affermare nella vita di tutti giorni quei valori di Giustizia e quella voglia di normalità che viene negata dalla sopraffazione mafiosa, ammantata di tradizione quando invece la nega costantemente.

E’ un invito che per il 2015 significa continuità e più slancio ancora per l’Antimafia dei fatti e non parolaia e/o convegnistica. Perchè sono quegli esempi a chiedere di rilanciare, razionalmente ma con perseveranza, anche quando, guardandosi indietro, si vede poca luce e molto buio, soprattutto in un anno come il 2014, pieno di scandali per corruzione e mafie.

Il 2014 è stato infatti un anno contraddistinto da tre grandi scandali: Mose (Venezia), Expo (Milano) e Mafia Capitale (Roma). Ed è stato anche l’anno in cui l’Italia ha raggiunto il triste primato per il reato di corruzione in Europa, sorpassando anche Grecia e Bulgaria, secondo la speciale classifica di Transparency. L’inchiesta veneziana è un classico delle bustarelle all’italiana: grande opera e imprenditori che foraggiano la politica per ottenere appalti. Quella milanese ha riportato in carcere, anche se per poco tempo, alcuni personaggi storici della Tangentopoli anni ’90 come Primo Greganti o Gianstefano Frigerio. L’indagine romana invece ha rivelato l’esistenza a Roma di quella che potrebbe essere considerata la quinta mafia d’Italia, quella della destra neofascista, erede dei NAR e della Banda della Magliana, che fa affari con la politica capitolina spalleggiata da una insospettabile cooperativa della sinistra ed altri personaggi trasversali, di una sponda e dell’altra della politica, invischiati nella corruzione e nel sistema mafioso dei 4 “re di Roma” denunciati da una inchiesta giornalistica già nel 1012 e lasciati lavorare indisturbati da una rete di complicità politiche che ha rischiato di far saltare anche la giunta del sindaco Marino. Mafia Capitale, l’inchiesta sul “mondo di mezzo”, ha svelato l’esistenza di un’organizzazione, considerata mafiosa dagli inquirenti di Roma, capace di intimidire, corrompere politici di ogni schieramento e metter le mani sugli appalti del Campidoglio e della Regione Lazio. Un’indagine, quella coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, che ha portato a tre tranche di arresti e all’iscrizione nel registro degli indagati per 416bis anche l’ex sindaco della Capitale, Gianni Alemanno. Un gruppo, quello guidato da Massimo Carminati ex banda della Magliana ex terrorista Nar ora al 41bis per ordine del ministro della Giustizia, capace di infiltrarsi e fare business nella gestione dei centri accoglienza per immigrati e dei campi nomadi, di manipolare le nomine e indirizzare le scelte politiche dell’ex amministrazione di centro destra, finanziare cene e campagne elettorali, affiliare imprenditori e usare la forza. Tanto da far purtroppo scrivere al New York Times che non “c’è angolo di Italia immune dalla criminalità”.

Un esempio, quello romano, di nuova mafia “grigia” che lavora alle spalle di chi vuole la Legalità, spesso infilandosi nelle maglie dei lavori puliti, sporcandoli nei nomi, nelle speranze, nei tentativi di rinnovamento. Una mafia devastante, perché corruttrice delle coscienze e delle speranze; ma che proprio per questo ha bisogno di risposte forti, certe, profonde, nella politica, ma anche nell’associazionismo, nella società civile, alla ricerca di anticorpi validi per non tradire la voglia di cambiamento di tanti cittadini, soprattutto giovani. A tutte queste persone che non si rassegnano e che rilanciano la voglia di cambiamento, va il nostro impegno per il prossimo anno, come cittadini, come Libera Informazione ed Articolo21, come operatori nel mondo del giornalismo.

Ma è un impegno che deve marciare con la richiesta alle Istituzioni di mantenere gli impegni presi nella lotta alla corruzione, alle mafie; ma anche nelle riforme verso maggior trasparenza nel diritto dei cittadini ad essere informati nel pluralismo e nella certezza del giornalismo non condizionato e non condizionabile. E’ giusto quindi proprio oggi e per il 2015, chiedere una vera riforma della legge sulla Diffamazione che protegga i giornalisti da Querele Temerarie che vogliono tappare la bocca al giornalismo d’inchiesta, da multe pesanti che inibiscono la ricerca della verità nelle indagini scomode, dai poteri forti di mafie e potentati economici che vogliono silenzio assordante per coprire traffici e lotte di potere ai danni della trasparenza e della democrazia. Ed al governo non possiamo che ricordare l’impegno per un vero sostegno all’editoria; quella dei grandi nomi dell’editoria, certo, ma anche a quella più svincolata e libera, in nome della concorrenza ed anche del sostegno alle voci più deboli economicamente, ma forse più forti socialmente; quelle dei piccoli giornali, delle tv fuori dai grandi network, delle radio e dei siti internet che fanno l’informazione di prossimità, fuori dai cori e dalle orchestre mediatiche che appiattiscono l’informazione ed il coraggio dell’inchiesta.

Non possiamo però dimenticare che il nostro lavoro ed impegno, come Libera e Libera Informazione, va nella direzione della denuncia anche delle situazioni sociali che spesso  mortificano quell’Articolo 21 della Costituzione, a monte della libertà d’informazione, quando la capacità di informarsi e decidere del proprio destino si scontra quotidianamente con disoccupazione, timori per il proprio futuro e con la povertà incalzante.

E dunque, anche in questo inizio di anno, dobbiamo ricordare, di nuovo, che in Italia il 12,6% delle famiglie è in condizione di povertà relativa (per un totale di 3 milioni 230 mila) e il 7,9% lo è in termini assoluti (2 milioni 28 mila). Le persone in povertà relativa sono il 16,6% della popolazione (10 milioni 48 mila persone), quelle in povertà assoluta il 9,9% (6 milioni 20 mila). Cifre che fanno riflettere: la povertà assoluta aumenta tra le famiglie con tre componenti (dal 6,6 all’8,3%), quattro componenti (dall’8,3 all’11,8%) e cinque o più componenti (dal 17,2 al 22,1%). Peggiora la condizione delle coppie con figli: dal 5,9 al 7,5% se il figlio è uno solo, dal 7,8 al 10,9% se sono due e dal 16,2 al 21,3% se i figli sono tre o più, soprattutto se almeno un figlio è minore. Nel 2013, 1 milione 434 mila minori sono poveri in termini assoluti (erano 1 milione 58 mila nel 2012).

Tutto questo mentre le diseguaglianze tra ricchi e poveri sono cresciute, anche nell’anno che si chiude: nel 1993, il 10 per cento più ricco intascava il 30 per cento del reddito dichiarato, lasciando il 70 per cento a tutti gli altri. In quegli anni l’economia italiana si era fermata, smettendo, sostanzialmente, di crescere per non ripartire più,  accontentandosi di allargarsi ad un ritmo paragonabile a quello di Haiti o dello Zimbabwe, lontano dal resto dell’occidente. Ma questo non impedisce ai 4 milioni di italiani più ricchi, quelli con un reddito sopra i 350 mila euro, di ritagliarsi una fetta di torta sempre più grande: al 2003, sono arrivati sopra il 33 per cento. Nel 2007, alla vigilia della crisi, sono saliti ancora, sopra il 34 per cento. In meno di 25 anni, la fetta del 10 per cento è cresciuta di quasi un terzo. Nel 2007, la quota dei 40 mila straricchi era salita oltre il 3 per cento. In pratica, in 25 anni è raddoppiata. E la crisi? A queste altitudini è un refolo social-economico, che non compromette la presa delle classi più agiate sulla torta nazionale. Fra il 2007 e il 2009, la quota del 10 per cento più ricco scende dal 34,12 al 33,87 per cento. Poca roba, mentre la forbice tra il 10% di ricchi della popolazione ed il restante 90% si è allargata, eliminando le fasce intermedie, i ceti medi, sprofondati nelle fasce più povere (o tendenzialmente tali) della popolazione. Mentre parallelamente aumenta il “nero”, l’economia sommersa, non dichiarata e spesso solo illegale, che va dall’evasione fiscale e relativa fuga di capitali all’estero alle ricchezze mafiose che, non dichiarate, inquinano l’economia legale con la loro presenza di soldi liquidi e riciclati.

Per questo i provvedimenti economici e la lotta contro la corruzione devono sostanziarsi di vere misure che invertano questa tendenza alla divaricazione e separazione tra sempre più ricchi e sempre più poveri. E per questo l’Informazione, tutta, deve legare le denuncie contro sprechi, mafie, corruzioni, alle denuncie contro le povertà e le emarginazioni sociali. E’ in gioco il nostro ruolo di Informazione Libera e di democrazia, nel solco tracciato invece dalla Costituzione italiana.

E’ per questa ricostruzione che la società civile e politica deve lavorare, in questi prossimi mesi. Noi per primi.

Uscire dalla crisi economica e sociale devono essere impegni paralleli, impegnandosi non solo nell’equità ma anche nella solidarietà: parola chiave nella crescita di questo paese, nella ricomposizione di quello specchio sociale frantumato anni fa dalla crisi e dai governi berlusconiani e non ancora ricostruito. Perché solo facendo capire i fenomeni, solo fornendo dati ed opinione, è possibile aiutare chi è disorientato a farsi una propria idea, a ritrovare dialoghi e solidarietà, nel Paese e, quindi, nelle sue istituzioni.

Lo scrivevamo lo scorso Capodanno, lo ripetiamo questo fine 2014: “Parlatene, parlatene, parlatene” è stato uno degli ultimi appelli di Paolo Borsellino, rivolto ai giovani e soprattutto ai giornalisti, all’opinione pubblica. Parlare di mafia e mafie, far capire la loro pericolosità e consistenza, mettere in luce, con inchieste puntuali e periodiche, gli affari di quelle criminalità organizzate che si insinuano con la violenza nell’economia reale del Paese, alterando il mercato e la concorrenza con un giro d’affari che, secondo la Commissione Antimafia del Parlamento, si aggira oggi  sui 150 miliardi di Euro l’anno.

Eppure nonostante queste cifre siano ormai note, il tema mafia continua a non essere costantemente affrontato dai Media italiani. Anche se l’economia sommersa illegale per evasione fiscale o fondi sottratti ed espatriati clandestinamente, supera i 120 miliardi di Euro. Ed allora vale la pena far risaltare questi dati nei Media, proprio guardando al 2015, in presenza di una crisi economica molto profonda che ha bisogno di incidere e tagliare il bubbone mafioso alla radice, cioè nell’illegalità e nella zona grigia mafiosa come nel contrasto militare della violenza cruenta di queste organizzazioni.

In nostro impegno, dopo un 2014 contrastato e difficile, parte proprio da qui: con l’esempio e la forza delle donne che hanno rotto i legami con le mafie, possiamo contribuire ad accendere i riflettori ed a tenerli accesi ogni volta che è necessario ed importante, mettendo in risalto i fatti e le notizie, le criticità e le positività emergenti, stimolandone così la discussione e la diffusione sino ai grandi network nazionali ed al Web. Alimentare quindi la rete di corrispondenti e giornalisti dai territori, non trascurando mai gli impegni verso le istituzioni e gli enti locali per studiare e mettere a disposizione le nostre conoscenze con dossier e ricerche mirate; con un impegno che nel 2015 sarà ancora maggiore nella formazione giornalistica, grazie anche ai Crediti Formativi obbligatori per legge, ma che hanno bisogno di voci chiare, univoche e personalmente impegnate nel far luce sui meccanismi mafiosi. Garantendo sempre una attenzione particolare all’esigenza di Giustizia che sale costantemente dalla società civile ed in particolare dalle vittime delle mafie. Continueremo a dare assistenza a chi viene minacciato dalle Querele Temerarie, offrendo il nostro Sportello Antiquerele a chi è precario o senza copertura di editori e direttori, per non limitare la loro libertà di inchieste giornalistiche, sapendo di poter contare su una difesa adeguata e, sinora, sempre vincente.

Accompagnare infine le campagne dell’Antimafia nazionale, quella dei fatti e non delle parole, quella di base, dei gruppi, associazioni e singoli, lavorando perché nessuno si senta mai isolato, ma coinvolto viceversa nella giusta solidarietà di tutti, dai giornalisti agli operatori del contrasto sul territorio ed ai cittadini tutti, avendo sempre il faro della Costituzione e delle istituzioni democratiche ad illuminare il nostro lavoro.

Tratto da: articolo21.org