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buttafuoco-pietrangelodi Fabio Repici - 20 novembre 2014
Pietrangelo Buttafuoco
scrive bene. Si sbrodola un po’ troppo nel compiacimento di sé, ma scrive bene. Lo ha dimostrato negli ultimi tempi anche col suo Buttanissima Sicilia (ed. Bompiani), una sorta di beffarda e spudorata invettiva contro l’indole spettacolarmente autolesionista della sua terra. Laddove, per l’ennesima volta, Buttafuoco ha mostrato quanto poco abbia a cuore la propria coerenza, nel trattare ferocemente le vicende politiche (e giudiziarie) dell’ex presidente Raffaele Lombardo, oggi paragonato a Mastro don Gesualdo ma un tempo dallo stesso Buttafuoco decantato come fatato esponente politico che avrebbe finalmente risollevato le sorti della Sicilia. Erano tempi, quelli del Lombardus mirabilis, curiosamente coincidenti con la nomina di Buttafuoco, grazie a Lombardo, come presidente del Teatro Stabile di Catania e con la prefazione dello stesso Buttafuoco all’imprescindibile Il Movimento per l’autonomiadi Raffaele Lombardo, libro di tal Nuccio Molino, putacaso al tempo portavoce di Lombardo (e amico di Buttafuoco, ho letto da qualche parte).

Ma non è dell’incoerenza politica di Buttafuoco che voglio occuparmi (incoerenza solo sulle questioni per lui futili, in realtà, perché per il resto il nostro resta sempre e coerentemente fascista, da qui all’eternità). E, del resto, alcune delle cose scritte in Buttanissima Sicilia sono perfino condivisibili, a cominciare da talune sull’attuale presidente Crocetta, il quale sembra quasi impegnarsi allo spasimo per attirarsi meritatamente le critiche più urticanti.

C’è, invece, che, se sulle idee e le opinioni politiche ognuno può dire quel che meglio crede, lo stesso non può valere per i fatti, soprattutto quando si tratti di fatti drammatici, come la strage di via D’Amelio. Su quelli, leggere falsità provoca l’indigesto. E in una pagina di Buttanissima Sicilia (la numero 67) se ne legge un concentrato osceno, tutto in un significativo spazio tra parentesi (come per dare ragione a chi teorizza che le cose più importanti sono sempre quelle relegate fra due parentesi): “E sono cose di Sicilia, tutte dentro il sipario, strette nella tenaglia della legittimazione reciproca o, al contrario, del disconoscimento di ritorno. Ponendo il caso, tra i casi, che un Salvatore Borsellino (che di cognome, appunto, fa “Borsellino”), non convochi un’assemblea di Agende rosse e non stili un nuovo elenco di buoni e di cattivi (sì, la famosa agenda da cui Paolo Borsellino non si staccava mai, quella andata sicuramente distrutta dalla carica di tritolo, ritenuta trafugata sulla scena dell’orrenda strage, quella considerata alla stregua del Graal per smascherare la trattativa Stato-mafia e poi rivelatasi un parasole)”.

Tralascio di immorarmi sull’elasticità di Buttafuoco nell’uso della punteggiatura, con la virgola a separare un soggetto da un predicato (“Salvatore Borsellino, non convochi”), e ammetto che pure su un mio amico (qual è, appunto, Salvatore Borsellino), naturalmente, Buttafuoco ha tutto il diritto di pensarla diversamente da me. Sennonché, nella parentesi citata testualmente sono state messe in fila due buttanate (o buttafuocate?) di dimensioni colossali: 1. L’agenda rossa di Paolo Borsellino andata sicuramente distrutta. Salvo che Buttafuoco non voglia dire che Agnese Borsellino abbia, non si sa per quale motivo, mentito ai magistrati e alla nazione, è certo che quel maledetto pomeriggio del 19 luglio 1992 l’agenda rossa di Paolo Borsellino si trovava nella sua borsa, la quale ultima, per nulla distrutta, fu fotografata e videoripresa mentre veniva portata via dal rogo di via D’Amelio in mano a un ufficiale dei carabinieri, che non ha mai voluto rivelare a chi l’abbia fatta avere, prima di rimetterla a bordo dell’auto del magistrato ucciso, priva dell’agenda, quando le fiamme non si erano ancora spente. Capisco che per un fascista come Buttafuoco sia arduo pensar male di un capitano dei carabinieri (non oso immaginare la stima che egli possa nutrire per il generale Mori!) ma le immagini sono lì a dimostrare che la borsa che custodiva l’agenda rossa fu temporaneamente trafugata, così da consentire la sottrazione definitiva dell’agenda rossa; 2. L’agenda rossa di Paolo Borsellino rivelatasi un parasole. Qui Buttafuoco arriva a screditare se stesso con un illusionismo dialettico che nemmeno il peggior epigono del mago Silvan avrebbe osato proporre. Fu un falso scoop (e un vero depistaggio) di Francesco Viviano su Repubblica di un anno e mezzo fa (immediatamente, non a caso, rilanciato da Gianmarco Chiocci ed Enrico Tagliaferro sul Giornale) a tentare di accreditare l’ipotesi che l’agenda rossa, anziché essere stata prelevata furtivamente dalla borsa di Paolo Borsellino dopo l’esplosione in via D’Amelio, fosse stata immortalata, miracolosamente intatta, sotto un pezzo di cadavere carbonizzato della povera Emanuela Loi. Taluni denunciarono immediatamente che non di scoop ma di depistaggio a mezzo stampa si trattasse; dopo ventiquattr’ore gli accertamenti della Procura di Caltanissetta si incaricarono di attestare che quello individuato da Viviano come agenda rossa era in realtà un pezzo di parasole.

Ciò avveniva proprio nelle settimane in cui l’istruttoria dibattimentale del processo Borsellino quater si stava occupando pericolosamente (per alcuni, almeno) proprio della sottrazione dell’agenda rossa. Ed ecco che fuori tempo massimo Buttafuoco rilancia il depistaggio con un salto logico da psichiatria. O – ipotesi perfino peggiore – da sputasentenze, pur essendo di quei fatti su cui scrive sommamente ignorante. Come può un intellettuale (ché tale è Buttafuoco, e perfino un opinion leader, a conferma del tempo sbandato in cui viviamo) raggirare i propri lettori, mistificando i dati della realtà, addirittura su una vicenda così grave come la strage di via D’Amelio?
Non ero ancora riuscito a trovare una risposta, fino a quando, qualche settimana fa, rigirandomi fra gli scaffali di una libreria, mi balzarono davanti agli occhi Buttanissima Sicilia e, accanto a lei, un altro libro, a me fino a quel momento ignoto, del prolifico Buttafuoco. Il titolo è Fogli consanguinei e, da quel che ho capito, è una raccolta di pezzi scritti per il quotidiano Il Foglio, diretto da quel Giuliano Ferrara che di Buttafuoco è, comprensibilmente, uno dei mentori più infervorati. Ma a lasciarmi senza fiato fu sapere chi fosse stato l’editore del Buttafuoco di Fogli consanguinei: Edizioni di Ar. Chi non avesse mai letto gli atti del processo per la strage di Piazza Fontana (che è il luogo nel quale più si è parlato delleEdizioni di Ar) sappia che si tratta della casa editrice dell’ar(iano) Franco Freda, lo stragista di Piazza Fontana, come stabilito dalla Corte di cassazione nel 2005. E all’analisi agiografica di Franco Freda (cioè del bombarolo razzista suo editore) Buttafuoco ha addirittura dedicato il primo capitolo di Fogli consanguinei.

A quel punto ho capito due cose. La prima è che Buttafuoco con la verità sulle stragi ha un conflitto ideologico, strutturale, quasi ontologico. La seconda è che l’Italia è davvero il paese della tolleranza acritica per le devianze dei potenti (ché Buttafuoco è un intellettuale potente, pubblicato dai più grossi editori, oltre che da Franco Freda, e dalle più grosse testate giornalistiche, oltre che da Giuliano Ferrara, e pure ospite riverito di salotti televisivi), se a un autore del catalogo dello stragista Franco Freda è dato spazio amplissimo, senza nulla eccepire, da giornali soi-disants democratici.

Fabio Repici (fonte: www.ilguastatore.it)

Tratto da:
19luglio1992.com

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