Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

travaglio-marco-web31di Marco Travaglio - 12 luglio 2014
Ieri Piero Grasso, seconda carica dello Stato, diversamente dalla prima ha testimoniato al processo sulla trattativa Stato-mafia davanti alla Corte d’Assise di Palermo senza fare tante storie. La sua testimonianza verteva sulle pressioni di Nicola Mancino sull’allora procuratore nazionale antimafia Grasso e sul Quirinale e da questo (tramite Napolitano, il segretario del Quirinale Donato Marra e il consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, poi scomparso) sul Pg della Cassazione Gianfranco Ciani e sullo stesso Grasso per scippare alla Procura di Palermo l’inchiesta sulla trattativa, o almeno per normalizzarla con un “coordinamento” invasivo dall’alto. Grasso – va detto a suo merito – respinse le pressioni. Ma ieri, anziché rivendicare con orgoglio la sua impermeabilità a quei veri e propri abusi di potere del Quirinale e dalla Procura generale, ha fatto di tutto per sminuirli. “Mancino – ha detto – si sentiva perseguitato” dai pm di Palermo. E, fin qui, chissenefrega: le patrie galere sono piene di sedicenti perseguitati, così come il Parlamento (non c’è politico inquisito che non strilli al complotto dei pm cattivi). Resta da capire perché, se un quivis de populo o il Berlusconi di turno grida alla persecuzione, non se lo fila nessuno, e se lo fa Mancino si mobilitano Napolitano, D’Ambrosio, Marra e Ciani. Quest’ultimo, obbedendo a una lettera scritta da Marra per conto di Napolitano, il 19 aprile 2012 convoca Grasso in Cassazione per sensibilizzarlo sulle lagnanze di Mancino.

Grasso risponde che non c’è nulla da fare: non ha poteri di avocazione né di indirizzo sulle indagini di Palermo; e il coordinamento fra i pm di Palermo e di Caltanissetta è già assicurato dalle sue direttive di un anno prima, recepite dal Csm in un protocollo sempre rispettato dalle due Procure. Dunque le proposte indecenti che continuamente gli vengono rivolte sono irricevibili, al punto che Grasso pretende che il Pg gliele metta per iscritto, così da potergli rispondere a sua volta nero su bianco e lasciare traccia dell’accaduto (la lettera Marra-Napolitano e la sua convocazione erano segrete, e tali sarebbero rimaste se a fine indagini, a metà giugno, il Fatto non ne avesse parlato, costringendo il Colle a pubblicare precipitosamente il testo). Ieri Grasso ha detto che mai con Ciani si parlò di avocare l’inchiesta. Ma dal verbale del loro incontro risulta il contrario: “Il Pna (Grasso, ndr) precisa di non avere registrato violazioni del protocollo del 28.4.2011 tali da poter fondare un intervento di avocazione”. Se il Pg non chiese a Grasso di avocare, perché mai Grasso rispose di non poter avocare? Intervistato dal Fatto il 22 giugno 2012, Grasso infatti rivelò: “Il 22 maggio ho risposto per iscritto grasso-proc-tratt-carab-c-ansaspecificando che nessun potere di coordinamento può consentire al Pna di dare indirizzi investigativi e ancor meno di influire sulla valutazione degli elementi di accusa acquisiti dai singoli uffici giudiziari”. Ora è comprensibile che Grasso, divenuto la seconda carica dello Stato, cerchi in ogni modo di risparmiare alla prima la responsabilità (politica, non penale) d’aver tentato di pilotare un’indagine che preoccupava l’amico Mancino. Ma purtroppo è quel che emerge dalle carte. Compresa la lettera di Mancino a Napolitano datata 27.3.2012 che originò il tutto e che, finora top secret, è stata finalmente divulgata grazie a un autogol di Marra, che l’aveva con sé in aula: il pm Di Matteo gli ha chiesto di consegnarla ai giudici e ne ha dato lettura. Anche lì si chiedeva di indirizzare le indagini e di unificarle in una sola procura: quella, da lui prediletta, di Caltanissetta. Mancino si scusava anche col capo dello Stato perché non era la prima volta che lo coinvolgeva nei suoi fatti privati. Scuse superflue: Napolitano si diede subito da fare. E solo per lui: agli atti del processo c’è un’altra lettera del Quirinale che respinge le lagnanze di un cittadino sedicente perseguitato e gli spiega che il capo dello Stato non può interferire in un’indagine. Sempreché non glielo chieda un tizio col cognome che inizia con la M e finisce con la o.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 12 luglio 2014

In foto: Marco Travaglio e il presidente del Senato Pietro Grasso durante la sua deposizione, nell'aula bunker del carcere dell'Ucciardone a Palermo (© ANSA)

ARTICOLI CORRELATI

Se anche Grasso smentisce se stesso

Grasso al processo trattativa: “Mancino si sentiva perseguitato”