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manca-chi-lha-visto-mortedi Antonio Ingroia - 25 giugno 2014
Attilio Manca era un medico siciliano e lavorava all’ospedale Belcolle di Viterbo. Era un urologo molto bravo, uno dei primi ad utilizzare la tecnica chirurgica della laparoscopia per operare il cancro alla prostata. Quando fu trovato morto nella sua casa di Viterbo, il 12 febbraio del 2004, non aveva ancora compiuto 35 anni. Li avrebbe compiuti otto giorni dopo, se non fosse stato ucciso, perché io sono certo che si sia trattato di un omicidio. Un omicidio di mafia e di Stato. Un omicidio legato a doppio filo alla latitanza di Bernardo Provenzano e in particolare all’intervento chirurgico per un cancro alla prostrata a cui l’allora capo dei capi di cosa nostra si sottopose a Marsiglia nell’autunno 2003. Un omicidio da inquadrare nell’ambito di quella vicenda complessissima e per molti aspetti ancora da chiarire che fu la trattativa Stato-mafia. Quando il corpo di Attilio Manca fu rinvenuto aveva due buchi nel braccio sinistro, mentre due siringhe da insulina furono trovate in casa.

La procura di Viterbo non ebbe dubbi e con una fretta immotivata, senza nemmeno considerare evidenze clamorose, decise che si trattò di morte per overdose se non di suicidio. Insomma, Attilio sarebbe stato un tossicodipendente che, forse per farla finita, si sarebbe iniettato in vena un mix letale di eroina, tranquillanti ed alcol. Il problema, giusto per dirne una, è che lui era mancino, per cui semmai si fosse iniettato qualcosa in vena i buchi si sarebbero dovuti trovare sul braccio destro e non su quello sinistro. E poi ci sono le foto, inequivocabili, del suo corpo senza vita, trovato a letto con il volto tumefatto e il setto nasale deviato propri di chi è stato aggredito e colpito ripetutamente. Ma le anomalie sono tante, in una vicenda giudiziaria paradossale, caratterizzata da prove manomesse e falsificate, depistaggi, tentativi di insabbiamento, omissioni investigative, contraddizioni e tutto il peggio già visto in tanti altri misteri di Stato. Anomalie simili a quelle emerse in procedimenti certamente paralleli e sicuramente collegati, mi riferisco alle indagini sulla trattativa Stato-mafia e al ruolo strategico avuto da Provenzano in quella trattativa, per cui ancora prima di approfondire la vicenda ho sempre avuto il dubbio che anche in questo caso ci siano stati alcuni depistaggi fabbricati a tavolino. Quel dubbio è diventato certezza, la certezza di un’ingiustizia di Stato, quando ho avuto modo di conoscere la mamma di Attilio in maniera casuale. Ora che da legale, insieme all’avvocato Fabio Repici, della famiglia Manca conosco meglio l’incartamento processuale, con le mancate indagini della procura di Viterbo, quella certezza si è trasformata in indignazione. Nella mia esperienza non breve da pm ho incontrato a volte timidezza, altre volte sciatteria, altre volte ancora pigrizia professionale e talvolta vera e propria mediocrità sul lavoro. Devo dire però che mai avevo visto un fascicolo con carte di questo tipo, da cui emergono tutta l‘incapacità e le negligenze degli inquirenti, nonché l’arroganza dei magistrati che hanno archiviato il caso senza voler ascoltare le ragioni dei familiari e anzi dimostrando assoluta superficialità e gravi pregiudizi. Non c’è infatti bisogno di essere Sherlock Holmes per capire che quelle foto non sono le foto né di un suicidio né di un’overdose accidentale, come ha invece cercato di affermare la procura di Viterbo. Sono piuttosto foto che raccontano un omicidio a seguito di un violento pestaggio. Quanto al pm a cui è stata affidata l’inchiesta, quello che non ha indagato sulla vicenda, in udienza ha detto che non voleva far perdere troppo tempo al giudice con un caso che non meritava lungo approfondimento. Un bluff, poi, è la perizia: nella consulenza tecnica si scrive solo che Attilio Manca avrebbe assunto sostanze stupefacenti. Fatto incontestabile, ma la perizia non dice chi gliele ha inoculate. Imbrogliando carte e parole, la procura sostiene che la perizia dimostri come Attilio fosse un assuntore abituale, un tossicodipendente, cosa che invece la perizia non dice affatto. Su questa “non-prova” è stato costruito tutto il castello di congetture che ha portato alla conclusione che fu morte per overdose. Ma perché tutta questa fretta di chiudere il caso senza un colpevole? Perché i depistaggi, i tentativi di insabbiamento? Ebbene, per capire la vicenda Manca bisogna inquadrarla in un contesto molto più grande e molto più complesso in cui il depistaggio ha un movente. È la storia che ce lo insegna, basta ricordare quanto accaduto con le indagini sulla strage di via D’Amelio. E allora i riferimenti e i collegamenti a Provenzano non sono solo suggestioni: il ruolo del boss nella morte di Attilio va inserito nell’ottica sempre più plausibile, se non probabile, di eliminare un testimone scomodo e attendibile. Non è infatti assolutamente azzardato supporre che Attilio, uno dei più bravi specialisti italiani, originario di Barcellona Pozzo di Gotto – dove si ritiene abbia trascorso parte della sua latitanza Provenzano – sia stato contattato per visitare, curare e operare il boss per il cancro alla prostrata, senza sapere chi fosse, per poi essere eliminato in quanto pericoloso testimone. Tesi avvalorata dalle affermazioni del mafioso pentito Francesco Pastoia, poi trovato impiccato in carcere, il quale, intercettato, afferma che Provenzano fu assistito da un urologo siciliano in uno dei suoi covi. Tesi supportata dai giorni trascorsi in Costa Azzurra da Manca per una improvvisa vacanza e da vari altri riscontri oggettivi. Ma chi o cosa metteva a rischio il testimone Attilio Manca? Chi o cosa bisognava proteggere? Provenzano ovviamente, sia perché boss mafioso latitante sia perché garante della trattativa. Ma anche quel pezzo di Stato che proteggeva il capo di cosa nostra proprio in quanto garante della trattativa. Ecco la convergenza di interessi tra mafia e Stato, una convergenza di interessi frutto di un patto scellerato di cui Attilio è stato vittima inconsapevole. È questa la verità che non si deve scoprire, è questa la ragione che porta al depistaggio e ai tentativi di insabbiamento. Ma la battaglia per scoprire cosa c’è dietro la morte assurda di un giovane medico va avanti. C’è uno spiraglio, quello aperto dal processo che vede imputata a Viterbo Monica Mileti, la presunta spacciatrice che avrebbe ceduto la dose letale ad Attilio. E’ l’unica speranza per fare chiarezza, per accertare la verità. Io e la famiglia Manca non ci arrendiamo, chiederemo alla Procura distrettuale antimafia di approfondire ciò che non è stato mai approfondito, andremo anche alla Procura nazionale antimafia. In altri casi che sembravano disperati e senza uscita, come nel caso Rostagno, non tutta la verità ma almeno un pezzo importante di verità è venuta fuori. Per questo non bisogna arrendersi. Lo dobbiamo ad Attilio, perché giustizia sia fatta.

Tratto da: lultimaribattuta.it