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buscetta-tommaso-arrestodi Francesco La Licata - 29 maggio 2014
Trent’anni di confessioni hanno messo in crisi i clan
Sono trascorsi più di trent’anni da quando Tommaso Buscetta ruppe gli indugi e consegnò a Giovanni Falcone l’inedita foto di Cosa nostra siciliana, ripresa dall’interno e dall’esterno, anche nei particolari più profondi e sconosciuti.
Fu un terremoto che - negli anni - ha finito per svuotare il monolite mafioso, riducendolo nello stato di debilitazione in cui si trova adesso.
Oggi fa notizia il pentimento di Antonino Iovine ’O ninno, uno dei capi storici del clan del casalesi, attualmente all’apice della notorietà anche per via della fortunata serie televisiva ancora in programmazione. Qualcuno potrebbe pensare di liquidare l’evento con un’alzata di spalle motivata dall’assuefazione ormai consolidata nei confronti dei «terremoti» di natura mafiosa. Ma sarebbe un errore: ogni colpo assestato alle mafie è un passo avanti verso un’esistenza migliore dei cittadini che abitano quei territori infelici ed anche di quelli che, pur nati in latitudini più serene, rischiano ancora il contagio infetto di Gomorra e di altri cancri. È un passo avanti verso il ripristino della legalità e dell’autorità dello Stato per troppo tempo compromessa in favore di un sistema di potere famelico che tiene insieme politica, imprenditoria e malaffare.

Basterebbe, d’altra parte, avere la possibilità di osservare da vicino cosa accade «attorno» al pentimento di un boss, per capirne l’importanza. C’è la fase «esterna», che riguarda soprattutto la difficile attività degli investigatori e della magistratura: la protezione dei familiari del collaboratore, innanzitutto. Fase che dovrebbe già essere esaurita, nel senso che chi deve stare al sicuro lo è già. C’è la necessità di mantenere segreta, quanto più possibile, la collaborazione. E c’è il momento dei riscontri alle rivelazioni, almeno i più impellenti. Attività, questa, che deve essere portata avanti con grande professionalità e riservatezza, per evitare errori del passato (un esempio per tutti il caso Tortora) che hanno rischiato di privare la macchina investigativa dell’apporto di uno strumento formidabile come il pentitismo.
È immaginabile che, parallelamente, si sia già scatenato il meccanismo di difesa della mafia. Un pentito del calibro di Iovine è per l’organizzazione un danno incalcolabile. Si aprono conflitti insanabili e ferite profonde. Come formiche rintanate in una tana raggiunta dal «Baygon», gregari e capi si staranno agitando per riuscire a decifrare «cosa può aver detto l’infame». Avvocati mobilitati, orecchie tese ad ogni livello, lungo i corridoi dei commissariati e delle Procure. Per non parlare della spasmodica ricerca di un indizio che possa far individuare il nascondiglio del traditore o di qualcuno dei familiari. Già, perché la mafia non abbandona mai l’idea che si possa tentare di «convincere» il pentito a tornare indietro e ritrattare.
Ma l’apprensione maggiore attraverserà certamente gli uffici degli imprenditori «a disposizione» e dei politici locali legati a doppio filo a Gomorra. Le prime notizie sulla cantata di ’O ninno autorizzano ogni timore: Iovine sembra voler raccontare «o sistema» e perciò non può fare sconti a nessuno. Se la magistratura sarà all’altezza.

Tratto da: La Stampa del 29 maggio 2014