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falcone-giovanni-facebookNessuno pensa mai al dolore di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo. Un testimone racconta.
di Roberto Puglisi - 24 maggio 2014
Palermo. “Il giudice Falcone era un uomo buono che soffriva maledettamente. Soffriva perché si sentiva isolato, perché era attaccato da tutti. Dormiva poco. Certe volte, dopo un breve riposo pomeridiano nel suo ufficio, io lo andavo a svegliare con discrezione, per un caffè. Mi apriva la porta, con i capelli arruffati, gli occhi rossi, con la faccia di un bambino che stava facendo bei sogni, ma è stato richiamato a una triste realtà. Quel volto è dentro di me”.
Nessuno pensa mai al dolore di Giovanni Falcone. Giovanni Paparcuri, il suo collaboratore elettivo, la nostra voce narrante, non può dimenticarlo. Nessuna pensa mai alle sevizie psicologiche e morali riservate al magistrato, celebrato in un tripudio di retorica funeraria, ogni 23 maggio. Dissero che era un innamorato del potere, che si era venduto ai socialisti, per la presunta vicinanza al ministro Martelli. Lo accusarono, con sussurri e pettegolezzi, di avere sistemato la bomba, nella sua villa all'Addaura, per un surplus di popolarità. Una sentenza della Cassazione ha disperso come cenere maligna questa e altre calunnie. Un Corvo che svolazzava con le sue lettere anonime gli rimproverò le peggiori nefandezze. Le macchie sull'anima e sul corpo della vittima di Capaci – nell'olocausto dell'autostrada con Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo morirono i ragazzi della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro - furono numerose. L'esplosione giunse alla fine di un linciaggio implacabile.

“Falcone soffriva moltissimo – racconta Paparcuri – per le chiacchiere che lo mettevano in croce. Ricordo la sua espressione sbigottita, quando Leoluca Orlando tirò fuori l'affermazione delle carte sui delitti eccellenti nascoste nei cassetti (il sindaco di Palermo ha sempre rivendicato il diritto a un'opinione in buonafede, ndr). Venne messo in croce, soprattutto, da coloro che, in teoria, avrebbero dovuto difenderlo, da personaggi di sinistra, amanti della legalità, che non persero occasione per parlarne male. Ora sono tutti sul palco delle commemorazioni. Il clima, in quegli anni, era pesantissimo. Ecco, guardi qui....”. Paparcuri tira fuori dal borsello un ordine di servizio del 12 aprile 1988. Si legge: “Ogni richiesta di copia degli atti memorizzati o di semplice notizia di dati, da chiunque proveniente, deve essere fatta per iscritto al capo dell'Ufficio, il quale, previe le consultazioni che riterrà del caso per accertarne la compatibilità con la esigenza di tutela del segreto istruttorio, valuterà di volta in volta...”. La firma è di Antonino Meli, diventato consigliere istruttore dopo un braccio di ferro notissimo, proprio con Falcone.
“Meli era un magistrato serio – dice Paparcuri – ma assai all'antica e chi gli chiese di concorrere per quel posto, alla successione di Nino Caponnetto, sapeva che avrebbe cozzato contro il pool antimafia e che l'avrebbe smantellato, accentrando i poteri. Così avvenne. Questo primo documento, a qualche mese dall'insediamento, per me, rappresentò già un chiarissimo presagio della limitazione, di quello che sarebbe accaduto, con la chiusura di un'esperienza preziosa di indagini”.

Storie passate, cicatrici che non passano. Giovanni Paparcuri fu accanto a Falcone per tanto tempo. E' un sopravvissuto. Assunto dal ministero di Grazia e Giustizia nell'Ottanta come agente autista e tecnico. Scampato miracolosamente all'attentato del 29 luglio del 1983 in cui persero la vita Rocco Chinnici, i carabinieri Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile di via Pipitone Federico, quando una Fiat 126 imbottita di tritolo saltò in aria. “Per molti mesi successivi – racconta – non seppero come impiegarmi. Un po' qua e un po' là. Alla fine Paolo Borsellino mi volle con sé e mi presentò a Falcone, il nostro rapporto nacque così. Io mi intendevo di computer, un campo appena all'inizio di cui ero esperto. Loro utilizzarono le mie competenze. Erano due persone straordinarie. Paolo Borsellino sapeva esprimere la sua profonda umanità, con un sorriso, con una battuta. Per Falcone era più difficile. Era introverso, gravato da una pena insopportabile. Aveva nemici dappertutto. Una volta, mentre era in riunione, entrai per comunicargli che un tale l'aveva cercato al telefono. Lui, lì per lì, abbozzò, poi mi prese a parte e mi disse: 'Papa – mi chiamava così – se mi cercano, dici solo che mi hanno cercato, omettendo il nome'. Era evidente che non si fidava di nessuno.
Aveva un unico e vero amico: Paolo Borsellino. L'intesa era di ferro. Erano nati e cresciuti in zone ad alta densità mafiosa. Capivano la mafia. Ne avvertivano l'odore. Per questo erano tanto bravi e tanto coraggiosi nel combatterla”.

Leggende sono prosperate sul cattivo carattere di Giovanni Falcone. “Stavamo insieme praticamente sempre. Poteva essere rude, perché era preoccupato. Non aveva un attimo di tregua e si sfogava. Ma era un buono, con un animo generoso. Lo invitai al mio matrimonio, pensando tra me e me: 'figurati se viene...'. Invece si presentò alla funzione in chiesa. Ho conservato le foto. Gli invitati erano stupiti: come mai tanti poliziotti? Erano lì per Falcone, Borsellino e Caponnetto. Era capace di gesti di tenerezza inaspettati che quasi lo spaventavano. Quando nacque mia figlia, mi regalò un pigiamino. Rivedo ancora il suo imbarazzo, mentre mi consegnava il pacco dono. Come uno che non è troppo abituato alle manifestazioni di affetto, anche se le cerca disperatamente”.

Le chiavi del cuore di Giovanni erano nelle mani di Francesca, la sua compagna di viaggio. Paparcuri lo testimonia: “Lei gli teneva testa. Correggeva i suoi appunti. Era presente, dolcissima. Una coppia affiatata e innamorata. Chi ha messo il tritolo a Capaci, ha distrutto, oltre al resto, una grande storia d'amore. Il giudice mi presentò a sua moglie un giorno. Avevamo litigato. Eravamo in freddo, per il modo in cui era maturato il mio trasferimento all'Ufficio Istruzione, traguardo che peraltro nella sostanza desideravo. Giovanni Falcone mi presentò, con una semplice frase: 'Francesca, questo è Papa. E' uno dei nostri'. E mi conquistò per sempre con quella semplicissima frase”.

Ora, dopo le parole, ci sono le lacrime che scendono su una tazzina di caffè, al tavolino di un bar davanti al Palazzo di giustizia di Palermo. Il sopravvissuto piange. Tenta di dissimulare. Non ci riesce. Nelle emozioni che gli guizzano in viso, c'è l'identikit di un dolore antico che si specchia in un altro dolore, risvegliato, riemerso alla luce, scongelato dal calore dell'affetto. E' il dolore di un uomo che amava ed era amato da una donna e che la perse il 23 maggio del '92. E' tutto il dolore di Giovanni Falcone.

Tratto da: livesicilia.it

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