Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

caselli-gian-carlo-web15di Rossella Guadagnini - 12 maggio 2014
Dal 1978 al 2014 l'Italia sgrana un lungo rosario di vittime di mafia e terrorismo, che lo Stato non ha potuto e, in molti casi, non ha voluto proteggere. Il duro j'accuse di Gian Carlo Caselli, magistrato da 46 anni in prima fila in una lotta impari che chiama in causa le nostre responsabilità.

Italia 1978-2014. E' lunghissima la lista di vittime del terrorismo e delle stragi mafiose. Un rosario di morti che, volenti o no, ci rappresenta tragicamente. "Recitarne l’elenco nelle cerimonie pubbliche non deve diventare un inganno. Uno schermo dietro il quale nascondere le nostre responsabilità. Quelle vittime sono morte anche perché noi – noi Stato, noi cittadini, noi Chiesa – non siamo stati fino in fondo quel che avremmo dovuto essere. Non siamo stati abbastanza vivi". Le parole di Gian Carlo Caselli, magistrato per 46 anni in prima fila contro le due grandi minacce alla democrazia in Italia, il terrorismo e la mafia, suonano come un duro atto d'accusa, che non lascia scampo.

E' il 9 maggio, il Giorno della Memoria, una ricorrenza istituita con la legge 4 maggio 2007 numero 56, per ricordare, ogni anno, l’anniversario dell’omicidio di Aldo Moro. Per non dimenticare, sì, ma anche per interrogarci sui rischi di una rinascita del terrorismo e della violenza politica, come testimoniato dai tragici omicidi registrati in Italia nell’ultimo decennio. "Noi non abbiamo vigilato – prosegue Caselli – non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia: nella professione, nella vita civile, politica, religiosa. I morti hanno visto il loro prossimo: la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, l’illegalità, la compravendita della democrazia, lo scialo di morte e violenza, il mercato delle istituzioni, i giovani abbandonati per strada, facile preda del mondo illegale. Questo hanno visto e per questo sono morti".

"Quante volte, invece di osservare il nostro prossimo, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile, abbiamo subìto e praticato, invece di spezzarlo, il giogo delle mediazioni e degli accomodamenti? La criminalità organizzata costringe il nostro popolo a sopportare infamie tremende e un doloroso turbamento sociale e morale. Occorre da parte di tutti uno scatto di responsabilità. Superando un agire troppo vecchio o timoroso, talora persino connivente, e trovando il coraggio di rinnovare. Ma guai se le commemorazioni, invece di essere una piattaforma di rilancio dell’impegno comune, diventassero un comodo lavacro delle coscienze, che faccia dimenticare le responsabilità di chi – ieri come oggi – lascia soli coloro che si impegnano".

Parole di oggi che ricordano vicende di ieri. "Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – aggiunge il magistrato – osannati da morti, sono stati ostacolati e vilipesi - umanamente e professionalmente – da vivi. Secondo l’amico Paolo, Falcone aveva cominciato a morire quando la maggioranza del Csm gli aveva incredibilmente negato la successione a Nino Caponnetto come capo dell’Ufficio istruzione, determinando l’inesorabile azzeramento del pool e la cancellazione del metodo di lavoro che era alla base del capolavoro investigativo-giudiziario del maxiprocesso. Effetti contro cui Borsellino aveva coraggiosamente preso posizioni pubbliche decise, col risultato di essere sottoposto, sempre dal Csm, a un procedimento paradisciplinare. Professionisti dell'antimafia, uso spregiudicato dei pentiti, pool trasformato in centro di potere, distorsione della politica a fini politici di parte: ecco il catalogo delle calunnie scatenatosi sulle loro teste".

Parole di ieri che ricordano vicende di oggi. Non occorre andare lontano. Alle accuse di Caselli il pensiero corre a quanto sta accadendo in questi giorni, alla situazione che oggi vede protagonisti il pm Nino Di Matteo e gli altri magistrati del Tribunale di Palermo alle prese con il processo sulla trattativa Stato-mafia. A seguito della recente ordinanza del Consiglio Superiore della Magistratura, infatti, è stato messo uno stop a ogni nuova indagine del pubblico ministero palermitano, in quanto non appartenente più – da quattro anni – alla Direzione Distrettuale Antimafia. Identica sorte toccherà a Francesco del Bene fra meno di un mese, all'inizio di giugno; quanto al terzo componente, Roberto Tartaglia, non fa ancora parte della Dda. A conferma dell'avvenuto azzeramento resta quindi soltanto il coordinatore del gruppo, Vittorio Teresi. Insomma, è facile tirare le conclusioni: stessa città, stesso tribunale, stesso smantellamento. Diversi sono solo i protagonisti.

Un provvedimento che appare nello stesso tempo assurdo e tuttavia inderogabile, dal momento che le nuove regole sono entrare in vigore proprio ora, nel marzo scorso. Una circolare che ha il sapore di una beffa e sembra fare perfettamente il paio con la storia della visita a Palermo, nel dicembre scorso, di una delegazione del Csm, guidata da Michele Vietti: i suoi membri si recarono a Palazzo di Giustizia in segno di solidarietà nei confronti dei magistrati minacciati di morte da Totò Riina, mancando però d'incontrare i diretti interessati.

"Nessuna banda di gangster è mai durata più di 20 o 25 anni – precisa l'ex procuratore capo di Torino, che ha lasciato l'incarico a fine dicembre scorso – La mafia c'è da 150. Come si spiega? Da un lato con il controllo del territorio, primo fattore che la differenzia dal crimine organizzato comune. Dall'altro direi soprattutto con le 'relazioni esterne'. Vale a dire l'intreccio di rapporti, affari e interessi con pezzi della politica, delle istituzioni, della pubblica amministrazione e dell'economia. Sottolineo che si tratta appunto di 'pezzi', distorti e deviati". Ora come allora, i riferimenti non sono affatto casuali. Le coincidenze non vanno sottovalutate. Il timore deve essere reale.

"Mafia e terrorismo sono fenomeni criminali stellarmente diversi, ma uniti nell'insofferenza a che se ne parli in maniera argomentata e critica", ricorda ancora Caselli. Era il 21 marzo scorso, quando ha letto il lunghissimo elenco delle oltre 800 delle vittime delle mafie in occasione della Veglia a loro dedicata, presieduta da papa Francesco, nella parrocchia romana di San Gregorio VII. Un applauso si era levato quando sono stati pronunciati i nomi di Falcone e Borsellino. Una scena destinata a ripetersi anche per le vittime del terrorismo, così come è accaduto venerdì scorso, al Salone del Libro di Torino, a cui sono state giustamente accumunate. Ancora voci e nomi, poi il silenzio, la commozione, il lutto. E ancora una volta tutti restiamo di qua e di là della barricata: loro morti, noi non abbastanza vivi.

Tratto da: temi.repubblica.it/micromega-online