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impastato-peppino-web1di Claudio Fava - 8 maggio 2014
Quando seppi per la prima volta di Peppino Impastato, il giorno in cui morì, avevo ventun anni. Che è un’età babba, insipida, non sei ancora un uomo, non sei più un caruso e osservi le cose straordinarie e atroci del tuo tempo con sguardo stupito e offeso. Peppino era più vecchio di me di quasi dieci anni, ricordo solo la foto di un ragazzo con la faccia magra e malinconica e una piccola folla
indurita ai suoi funerali.
Lo misi da parte, lo appoggiai in qualche luogo della memoria, distratto dalle molte altre cose che accadevano in quel tempo, Aldo Moro, i magistrati siciliani messi a morte, Boris Giuliano, Mattarella… Negli anni che vennero quel primo fotogramma, quella storia perduta si rianimò un po’ per volta (è così che accade in Sicilia: si incontra la morte di un uomo, e poi se ne ripercorre la vita). Me ne appassionai, anche per le cose che il mio amico Riccardo Orioles, coetaneo di anni e di militanza con Impastato, pazientemente mi spiegò su Cinisi, sui molti fili ingarbugliati a sinistra, su una lotta alle mafie che a Palermo era titolo d’apertura ma in periferia sfumava sempre nei bisbiglii, nelle cose indicibili, nei nomi innominabili.

Eppure quei nomi Impastato li aveva nominati, chiamati all’appello, sfigurati con lo sberleffo, storpiati nelle parodie di Radio Aut, inchiodati al rigore della sua denuncia. Aveva scritto, sedicenne, che la mafia è una montagna di merda. S’era messo dietro le spalle la famiglia, scegliendo per gli Impastato e per i loro “amici” parole definitive. Il suo sessantotto era stato la scelta di non vivere più nel nome del padre e della mafia. A Cinisi fu più che una rivoluzione: fu una bestemmia. Molti anni dopo, quando decisi di raccontare la storia di Peppino Impastato fu anzitutto quel segno di rottura, il livido di quel parricidio a turbarmi. Per me, chiamato a vivere anche nel nome di un padre, quel ragazzo di Cinisi che del nome di suo padre si era saputo spogliare affrontando la mafia nudo, con una famiglia di cartapesta alle spalle, mi sembrò una figura irripetibile. E irripetibile, tragica e sfacciata mi sembrò la distanza che aveva separato la sua vita da quella di chi volle la sua morte. Immaginai che i cento passi tra la casa di Impastato e i balconi di Badalamenti non fossero la misura di una distanza ma di una fatica, di una promiscuità subìta da quel giovane uomo come una prigione. Ci hanno educati a raccontare algide storie di mafia e antimafia, gli assassini rintanati nei loro dominii, i magistrati rinchiusi nella loro fortezza e in mezzo niente, l’aria, il vuoto, un milione di passi… Pensai invece a quante volte Impastato e Badalamenti si erano scambiati sguardi, fiato, voce, pensai a tutti i destini del mondo costretti in un fazzoletto d’asfalto, la vittima e il carnefice, la sfida e la violenza, la bestemmia e la punizione. Andava raccontata per questo la morte di Peppino: per poter guardare dentro la sua vita, per immaginare la fatica di quella promiscuità e il rumore di quella ribellione. In fondo fu anche il suo privilegio: in una interminabile teoria di ammazzati di mafia sparati alle spalle, a lui toccò guardare in faccia mille volte il suo assassino.
Il mio è stato un racconto per tappe, aggiungendo ad ogni tornante nuovi dettagli, scavando in fondo alla solitudine di quel ragazzo, mettendone in fila parole, amici, gesti, dubbi, risate. Prima un libro, poi il documentario girato con Marco Risi, infine il film scritto con Monica Zapelli e Marco Tullio Giordana. Linguaggi diversi per dare sempre più corpo e concretezza a quella storia. Perché certe storie non ti basta metterle su carta, rinchiuderle dentro le parole. Io che non l’avevo conosciuto, avevo voglia di guardarlo in faccia, Impastato. Immaginarlo e poi vederlo, pensare le cose che avrebbe potuto dire e poi sentirgliele dire, contare con lui quei cento passi, sentirli scanditi su quel tratto di strada. Giordana fu bravo a scegliere un protagonista, Lo Cascio, che aveva la stessa umanità gracile e risoluta di Peppino. Fu sua madre Felicia a dircelo, quando se lo vide davanti: mi pare me’ figghiu. Il miglior complimento. Dopo 36 anni resta poco da aggiungere. E’ tempo piuttosto di rileggere quella storia, di raccoglierne i semi e i segni. Perché nella scapigliata esistenza di Peppino, nelle bugie di Stato che nascosero a lungo le cause della sua morte, nelle orgogliose contese su chi fosse più orfano di altri leggiamo anche questo tempo. Questo presente. Dove mafia e antimafia sono tornate parole di carta. A volte celebrative, spesso inoffensive. Ecco il punto: Peppino Impastato non celebrò mai se stesso. E non fu mai inoffensivo.

Tratto da: La Repubblica-Palermo

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