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grande-raccordo-criminaleAnticipazione da “Grande Raccordo Criminale” di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti per Imprimatur/editore in uscita il 26 febbraio
di Pietro Orsatti - 12 febbraio 2014
«Gente che è ‘scita dar gabbio carica a pallettoni che è ‘nnata subito a incassà cambiali, artri che er gabbio l’hanno solo sfiorato e zitti zitti hanno investito, se so’ ripuliti, hanno continuato a fasse li cazzi loro. Co’ tutti, co’ quelli de fuori, co’ li calabresi, li siciliani, li zingari e poi le banche e li politici e li palazzinari. I sordi so’ tanti e la fame pure. Ricordatelo questo. Poi te sorprendi che ce scappa er morto?»
Il morto? Sarebbe meglio dire i morti: due, dieci, venti. Più di sessanta negli ultimi anni fra Roma e l’hinterland in una serie di esecuzioni con una cadenza allarmante. E poi minacce, feriti, attentati a cantieri ed esercizi commerciali.
L’alba della mattanza per la presa di Roma inizia nel 2007. Mentre a pochi chilometri si commemora l’anniversario della breccia di Porta Pia, quattro colpi di arma da fuoco rompono la quiete di un quartiere della Roma “bene” incastrato fra la città e il litorale. A Casalpalocco, quello sfottuto da Nanni Moretti in Caro Diario, tutto «videoregistratori e pantofole», cade a terra gambizzato un pezzo da novanta della “mala”. Vito Triassi, esponente della potente famiglia di Cosa nostra siciliana dei Caruana-Cuntrera definiti i Rothschild della Mafia, non è lì di passaggio, la sua “famiglia” si è insediata nel litorale romano fin dagli anni Settanta. Lui, “er Mafia”, è a terra con le gambe spezzate, tra i prati all’inglese e il barbecue da giardino. “Er Mafia” si rialza, ma i proiettili non si fermeranno più. Si sparerà ovunque. Non è più tempo di pace armata: è l’inizio della guerra. Una guerra di mafie che porterà a cinque anni di escalation criminale e di cadaveri a terra.

Undici colpi di pistola crivellano il corpo di Vincenzo Femia, un pluripregiudicato calabrese genero del mammasantissima Peppe Nirta. La sua famiglia, attiva da vent’anni a Roma, è stata coinvolta persino nel sequestro di Paul Getty III, il nipote del magnate americano del petrolio, e nel mancato rapimento del campione della Roma Paulo Roberto Falcao. Femia sarebbe stato ucciso perché contrario all’apertura nella Capitale di un nuovo “locale” della ‘ndrangheta, collegato alle famiglie di San Luca. «L’omicidio di Femia rappresenta un segnale importante, un campanello d’allarme sulla presenza della ‘ndrangheta a Roma – ha dichiarato il procuratore aggiunto Michele Prestipino dopo gli arresti dei presunti killer – si tratta di uno dei tanti omicidi frequenti nella provincia di Reggio Calabria, dove ho lavorato. Bisogna però fare una riflessione sul fatto che sia accaduto a Roma. Dovunque la ‘ndrangheta si stabilizza, porta con sé tutto quello di cui è capace, dagli affari illegali all’omicidio, considerato dalla criminalità organizzata sempre l’extrema ratio per evitare di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine. Questo sta accadendo anche a Roma».
Pochi giorni dopo, dall’altra parte della città, a Casalotti, Antonio Bocchino, qualche precedente per spaccio e accusato di essere stato coinvolto in un tentato omicidio (poi è stato assolto) esce da casa per accompagnare i figli a scuola. Due killer si fingono poliziotti in borghese, agitano la paletta, lui si ferma. Lo freddano con cinque colpi di pistola. In una calda mattina di luglio, nel quartiere Delle Vittorie, tra avvocati con la ventiquattrore e mamme con passeggino, due sicari esplodono nove colpi e poi fuggono in moto. E qui sfuma l’illusione della criminalità di borgata, perché Delle Vittorie è al centro della Capitale. Nel 2011 cade a terra Flavio Simmi, trentenne romano, figlio di “Robertone”, proprietario di un ristorante e di un negozio di “compro oro”, indicato dagli inquirenti come vicino ad ambienti della vecchia banda della Magliana, poi assolto.
Nel giugno 2013 la Mobile di Roma smantella un’organizzazione criminale, tra le province di Roma e Perugia, dedita al traffico internazionale di stupefacenti. Gli arresti sono scaturiti dalle indagini sull’omicidio di Simmi e hanno fatto finire in manette anche un poliziotto e un tassista. La base principale era un residence nel quartiere bene di Prati, dove la droga era nascosta all’interno di quadri e souvenir.
Lì, a due passi da piazza San Pietro, dal castigato sportello dello Ior, la Banca del Vaticano, dove per troppo tempo un vorticoso giro di soldi s’è impaludato. Soldi della malavita romana, della ‘ndrangheta, di Cosa nostra, della camorra e poi dei servizi deviati e dei massoni “coperti” della P2. Un aperitivo da “Vanni”, un po’ di shopping in via Cola di Rienzo e poi un’enclave finanziaria e impenetrabile sigillata dentro la città eterna al centro della Capitale di questo buffo Paese. «Me stai a cojionà? Famo a capisse. Se c’hai ‘n paradiso fiscale dietro casa, che ce poi annà a versà li sordi co’ l’autobus, me spieghi perché annasse a mette co’ quelli de Bahamas, delle Cayman? E te credo che quelli della banda de la Magliana c’aveveno l’accordi co’ li monsignori. A Roma a nessuno je và de faticà». Altra Marlboro, altro “peroncino”. Scintillio d’oro e di denti scheggiati. Logica inconfutabile.
Se devi capire la Roma dei palazzi del potere e delle periferie disperate e violente non puoi far finta che il passato, non solo criminale, non pesi e molto in quello che accade oggi. Soprattutto, devi evitare di considerare questa città una come tante altre. Roma è la Capitale, sede del potere politico nazionale, delle decisioni finanziarie e di indirizzo economico, degli apparati dello Stato, compresi i servizi segreti, dei ministeri, della Chiesa e anche della massoneria. Roma è il raccordo, il centro dei ricatti. Quello che avviene in questi anni ha radici antiche, si basa su rapporti che si sono stabiliti attraverso il sangue.
Bisogna capire, partendo proprio dai protagonisti di un passato che è solo apparentemente remoto. «La banda della Magliana – si legge nella relazione conclusiva della Commissione antimafia del 1993 presieduta da Luciano Violante - centro di incontro spontaneo degli esponenti delle bande locali più rappresentative (Diotallevi, Giuseppucci, Balducci, Abbruciati) con usurai-costruttori (come Danilo Sbarra, Spurio Oberdan), affaristi e speculatori legati a politici, notabili ed esponenti dei servizi segreti e della massoneria (Pazienza, Carboni, Gelli), nonché un gruppo di mafiosi siciliani, il cui principale rappresentante è Pippo Calò. Attorno alla banda della Magliana gravitano pure elementi della “Nuova Camorra Organizzata” come Raffaele Cutolo e i suoi uomini. Nel 1978 esponenti dei gruppi terroristici neofascisti di Terza Posizione e Nar guidati da Valerio “Giusva” Fioravanti, Alessandro Alibrandi e Massimo Carminati entrano in contatto con l’ambiente dei ricettatori e degli usurai controllato da Giuseppucci, e per questa via con l’intera banda. I neofascisti instaurano così un rapporto organico con la banda della Magliana». Rileggendo quelle pagine di un organo del Parlamento che ha gli stessi poteri della magistratura, scritte quando la stagio ne delle stragi del ‘92 e ‘93 non è stata ancora chiusa, tornano in mente altre righe spietate di quasi vent’anni prima. «Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’al tra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine a criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). [...] Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti que sti nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi». Era il 14 novembre del 1974 quando Pier Paolo Pasolini pubblicò quello che probabilmente rimane il suo più famoso scritto corsaro. Parole che fanno da sfondo senza tempo alla mattanza silenziosa di oggi. Una progressione che va avanti, a fasi alterne, da decenni.
L’urbe eterna: i palazzi della politica e la guerra sotter ranea fra le mafie che controllano, condizionano, intimidiscono. E mandano messaggi. Sia a chi vince sia a chiperde.
Il 28 maggio 2013, mentre i telegiornali mostrano gli exit pool del primo turno delle elezioni per il sindaco e i candidati si preparano a fare dichiarazioni a favor di telecamera, fuori dal circo mediatico, ancora spari, an cora sangue. All’alba a Tor Sapienza, borgata a ridosso della Prenestina, un pensionato sessantaduenne, Claudio D’Andria, con un piccolo precedente per droga risalente al 2004, viene ucciso per strada con un unico colpo di pistola alla testa. Un’esecuzione.
Poche ore dopo, a Focene, sul litorale a nord a due passi dall’aeroporto di Fiumicino, un uomo suona alla porta di una casa. Apre un quarantenne. Un altro colpo alla testa, un’altra esecuzione.
Non è ancora finita. Pochi chilometri più a sud, ad An zio, sempre sul litorale, una raffica di proiettili bombarda un’auto con due giovani a bordo. Loro cercano di fuggire, i killer non gli danno tregua. Uno muore, l’altro è in fin di vita. Di quest’ultimo assassinio si dirà che di mezzo ci fosse una storia di donne. Ma le coincidenze sono tante. Troppe.
Poche settimane prima, tra i santini della campagna elettorale e papa Francesco che celebra il suo primo sabato Santo, un uomo con un casco integrale in testa entra in un bar di Tor Bella Monaca – un quartiere-città, isola nel nulla della periferia romana, edilizia popolare per esclusione sociale. Fa uscire con calma gli avventori e uccide il proprietario, Serafino Maurizio Cordaro, davanti al figlio.
Poi esce e se ne va.
Omicidi che portano messaggi. Perché quando si arriva ad ammazzare è anche per far capire qualcosa: i morti parlano. Cordaro, ricordano gli inquirenti, anni prima sarebbe stato coinvolto con la banda della Marranella negli anni Novanta, una “batteria” che tentò di riprendersi parte degli spazi lasciati dalla banda della Magliana.
E la conta dei morti ammazzati scandisce la normalizzazione della percezione del fenomeno criminale, di quell’intreccio romano di mafie, servizi deviati, politici corrotti partecipi o manipolatori, affaristi senza scrupoli, destabilizzatori ed eversori fino a veri e propri terroristi riciclati – e mai andati in pensione – diventati a volte personaggi presentabili, anzi, classe dirigente, uomini d’affari con tanto di certificato da parte della politica e dei salotti buoni.

Approfondimenti: granderaccordocriminale.wordpress.com