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vitale-salvo-webdi Salvo Vitale - 18 gennaio 2014
Gli occhiali
Il recente uso di una frase del film “I cento passi” come vetrina o slogan, per la vendita di una marca d’occhiali, ha causato un dibattito sull’opportunità di usare il nome di Peppino Impastato, o tutto quanto è attribuibile a lui, come elemento di commercializzazione.

Il fratello di Peppino, Giovanni, ha dato mandato al suo  legale di accertare, se ci sono estremi di reato e se è possibile, di far revocare lo spot, sulla rete si è aperta una raccolta firme, con analoga richiesta di revoca, che ha già raggiunto 50.000 adesioni,  mentre su “La Repubblica”, pagine di Palermo,  sono stati pubblicati due articoli, uno di Umberto Santino, l’altro di Francesco Palazzo, in cui si è sostenuto da una parte l’inopportunità della trovata pubblicitaria, dall’altra l’importanza di fare veicolare i messaggio sulla bellezza e l’attenzione verso Peppino Impastato, anche attraverso questo strumento. Altri non sono voluti entrare nella questione per non fare ulteriore pubblicità agli autori della trovata.

E’ il caso di rileggere  interamente il dialogo che Peppino e Salvo (cioè io), dall’alto di Monte Pecoraro, fanno, guardando l’aeroporto di Punta Raisi, dopo la costruzione della terza pista:

PEPPINO:  Sai cosa penso?

SALVO : Cosa?

PEPPINO:  Che questa pista in fondo non è brutta. Anzi

SALVO [ride]:  Ma che dici?!

PEPPINO:  Vista così, dall'alto ... [guardandosi intorno sale qua e potrebbe anche pensare che la natura vince sempre ... che è ancora più forte dell’uomo. Invece non è così. .. in fondo le cose, anche le peggiori, una volta fatte ... poi trovano una logica, una  giustificazione per il solo fatto di esistere! Fanno 'ste case schifose, con le finestre di alluminio, i balconcini ... mI segui?

SALVO:  Ti sto seguendo

PEPPINO:... Senza intonaco, i muri di mattoni vivi ... la gente ci va ad abitare, ci mette le tendine, i gerani, la biancheria appesa, la televisione ... e dopo un po' tutto fa parte del paesaggio, c'è, esiste ... nessuno si
ricorda più di com'era prima. Non ci vuole niente a distruggerla la bellezza ...

SALVO: E allora?

PEPPINO: E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte 'ste fesserie ... bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci?

SALVO: ( perplesso) La bellezza…

PEPPINO: Sì, la bellezza. È importante la bellezza. Da quella scende giù tutto il resto.

SALVO: Oh, ti sei innamorato anche tu, come tuo fratello?

A conclusione del dialogo:

 PEPPINO: Io la invidio questa normalità. Io non ci riuscirei ad essere così…

Andiamo invece a leggere lo slogan elaborato da due imprenditori, per  pubblicizzare la propria marca d’occhiali::

"Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore". Lo slogan si chiude con la postilla: da un’esortazione alla bellezza di Peppino Impastato.

E’ il caso di dire che la frase è ben costruita, recitata in modo aggressivo, all’interno di un video con immagini efficaci sul degrado causato dalla civiltà del cemento. La “furbata”, o, se si preferisce, il colpo d’ala, sta tutto in quel “da”, che giustifica la rielaborazione di quanto presente ne “I cento passi” e il suo libero riutilizzo. Va puntualizzato che, quella del film non è una “esortazione alla bellezza ” e non è, come hanno sostenuto alcuni giornalisti poco informati, nemmeno una poesia. Ma non è nemmeno una frase di Peppino Impastato o a lui attribuibile. Chi scrive può tranquillamente dichiarare di non avere mai avuto con Peppino alcun discorso di questo tipo. Si tratta di considerazioni che gli autori della sceneggiatura del film, cioè Marco Tullio Giordana, Claudio Fava e Monica Zapelli,  mettono in bocca a Peppino e a Salvo nel contesto di un discorso che, nel film, ritorna anche nella scena famosa dei cento passi:

“Cento passi ci vogliono da casa nostra, cento passi. Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar…alla fine ti sembrano come te: salutamu don Tanu, salutamu Giuvanni, salutamu Pippinu…… Io voglio fottermene…..noi ci dobbiamo ribellare, prima che sia troppo tardi, prima di abituarci alle loro facce, prima di non accorgerci più di niente”.

E’ un contesto in cui lotta alla mafia diventa lotta contro l’abitudine, contro l’assuefazione, contro l’omologazione, ovvero contro quella “normalità” in cui Peppino non riesce ad entrare. Nulla a che fare con il deformante messaggio comunicato dallo spot, secondo il quale un occhiale è lo strumento per vedere le cose nella loro giusta dimensione, quella della bellezza: se si tratta di un occhiale da vista esso restituirà la visione, più o meno corretta, della bruttezza realizzata dagli uomini, se di un occhiale da sole, esso offrirà particolari caratteristiche, cromatiche o di prospettiva all’interno della visione: ma anche in tal caso non è detto che la colorazione si configuri come bellezza, anzi, sembra essere un veicolo dell’inganno.


‘Ste fesserie…”
“ E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte 'ste fesserie ... bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci?”
 In questo passaggio Peppino, anzi, chi parla per lui, pone un problema di fondo, ovvero quello del primato della bellezza sulla politica e sulla lotta di classe.  Era questo il suo pensiero? Non credo. Per dei marxisti ortodossi come lo eravamo, lo strumento fondamentale che muove la storia è l’economia con le sue spietate leggi, la struttura, rispetto alla quale le altre cose, a cominciare dalla bellezza, dalla morale, dalle leggi, dalla religione, dalla cultura, sono sovrastrutture, cioè conseguenze, spesso inevitabili, della struttura di fondo. Il conseguimento di una dimensione compiuta dell’uomo è la inevitabile conseguenza di un momento di rottura degli equilibri del sistema, la lotta di classe, la mitica rivoluzione. Dopo, all’interno di una palingenesi dell’umanità, di una nuova fase senza disuguaglianze, all’interno di una società “in comune”, cioè comunista, si potranno leggere sullo sfondo dimensioni di bellezza e di serenità. Anticipare la fruizione della bellezza all’interno di un sistema brutale, come quello capitalistico, significa avallare strategie e strumenti che tendono a giustificarlo, a legittimarlo, a salvarlo. Non si tratta, quindi, di “fesserie”.

Quindi non c’è la volontà di far veicolare, in qualsiasi modo, il messaggio sulla bellezza, ma di usare il nome di Peppino in modo distorto e surrettizio,  per attribuirgli una cosa che non ha mai detto e sulla quale pensiamo avrebbe avanzato seri dubbi. Ben più grave l’atto di una panineria austriaca che, alcuni mesi fa, ha messo in commercio una serie di panini dedicati a mafiosi o a vittime della mafia: nel panino “Don Peppino” si leggeva: “Siciliano dalla bocca larga fu cotto in una bomba come un pollo nel barbecue”. Per il resto non è il caso di gridare allo scandalo: oggi la commercializzazione di una frase, dell’immagine di un uomo illustre, del luogo in cui è vissuto, di qualcosa che gli è appartenuto, è una delle tante aberrazioni di una civiltà che, pur di venderti qualcosa, pur di conquistare un mercato, pur di stupire, è capace  di truccare qualsiasi realtà per riproporla nel modo più suadente possibile, sino all’iperbole. E del resto, a voler sottilizzare, diventerebbero elementi di commercializzazione anche il film “I cento passi”, anche il vino con lo stesso nome, messo in vendita dalla cooperativa “Placido Rizzotto” di Corleone, che ha dato il nome di questo sindacalista a un altro vino, addirittura anche i miei libri su Peppino. Il muro divisorio potrebbe essere soltanto nel voler fare antimafia, ove ci sia questa intenzione, o nel voler far solo soldi.


La bellezza
Il tema della bellezza è stato, negli ultimi anni, un veicolo di promozione di progetti di educazione alla legalità: “L’etica libera la bellezza” è  lo slogan, utilizzato nel 2009 a Napoli, nel corso del XIV giornata della memoria:  “riscattiamo la bellezza, quella dei nostri territori violentati, quella della nostra arte, della nostra storia, quella delle tante persone giuste e oneste, quella dei sorrisi innocenti dei bambini, per far risplendere e contagiare il bene” , si legge nella presentazione dello spot, realizzato da “Pubblicità progresso” per Libera.

Punto obbligatorio di riferimento è la frase del  principe Miškin nell'Idiota di Dostoevskij:  "È vero, principe, che lei una volta ha detto che la 'bellezza' salverà il mondo? State a sentire, signori," esclamò con voce stentorea, rivolgendosi a tutti, "il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza! E io sostengo che questi pensieri gioiosi gli vengono in testa perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato [...] Ma quale bellezza salverà il mondo?...".

In un’altra opera, “L’adolescente”, lo scrittore russo ribadisce lo stesso concetto:  “L'umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”.
 La bellezza non salverà né il principe Miskin nel suo essere “idiota,” rispetto alla marcia società che lo circonda, né nessun altro dei personaggi di Dostoevskij, dai  Demoni ai Fratelli Karamanzov: nel momento in cui la bellezza si identifica in qualcuno o in qualcosa, in un viso di donna, un elemento della natura, un’opera d’arte, essa è già superata dal suo essere stesso “un frammento” dell’irraggiungibile, l’apertura di uno spazio che non si ferma soltanto all’armonia, alla proporzione, all’equilibrio, ma che penetra all’interno delle nostre forze oscure, pulsioni, spinte non controllabili e si perde in un mare di indistinzione che annulla persino la sua dicotomia con la bruttezza: “In realtà, quella Bellezza di per sé, ammesso che esista, non salva un bel nulla: tutt'al più consola, mitiga, riconcilia le parti lacerate; educa ad un'armonia interiore e collettiva. Ma pur sempre come ideale elevato cui il caos del mondo si conforma alla maniera di un'autoregolazione. Ma se di salvezza vera si deve parlare, se cioè quell'idea deve incarnarsi, pure nella migliore delle forme pensabili, affogherà inevitabilmente nel disordine del mondo. La Bellezza che ambisce a salvare resta un incipit incompiuto: un barlume di luce intravisto ma subito annegato nell'oscurità del mondo…La Bellezza che per sé sola salverà il mondo può al massimo funzionare da analgesico potente; può per un attimo distogliere la mente dal dubbio che il caos assoluto sia la legge di sempre. E non è poco, c'è da giurarci”. (Oppo: la Bellezza, il Male, la Libertà:  "Quale 'bellezza' salverà il mondo? L'Idiota di Dostoevskij e un difficile enigma", in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003,)

Inevitabile chiedersi di quale bellezza si tratta, e che vuol dire bellezza: il vocabolario Treccani scrive:  “bèllo agg. [lat. bĕllus «carino, grazioso», da *due- nŭlus, dim. di duenos, forma ant. di bonus]. Secondo questa discutibile interpetrazione, “duenulus”, che vuol dire “buono”, sarebbe all’origine del termine “bello”. Il termine “duenus” potrebbe, tuttalpiù trovare qualche attinenza con lo spagnolo “bueno”, ma non con “bello”. In realtà c’è dietro l’eterna questione  del volere creare l’assimilazione di etica ed estetica, la connessione tra bello e buono, quasi fossero due categorie che si identificano in una sola, due facce della stessa medaglia. Troviamo una prima  traccia di questo problema nell’interpretazione platonica del pensiero di Socrate, ovvero nell’intellettualismo etico, che coniuga virtù e sapere nella prospettiva finale della felicità (eudemonia), che inevitabilmente include la bellezza. La condanna platonica dell’arte, in quanto elaborazione del dato materiale, poiesis, fare, nella prospettiva  della fruizione dell’idea nella sua astratta purezza, si conclude nella visione dell’idea delle idee, il Bene e ne comporta, come inevitabile caratteristica, la bellezza. Il tema, attraverso il passaggio della catarsi aristotelica, dell’arte come strumento di purificazione per arrivare alla conoscenza, trova la sua definitiva composizione nel Cristianesimo e nella dicotomia, peraltro molto antica, tra bene-bello e male-brutto.  Un elemento interessante è che Lucifero, in principio il più bello degli angeli, diventa, dopo la ribellione, Satana, il Demonio, la bruttezza, il male, che diventa sempre più grande, man mano che ci si allontana dal dio-bene-bello, all’origine di tutto. Come dire che la bellezza è all’origine di tutto, anche della bruttezza.
Ma già i Sofisti avevano evitato di cadere in questa trappola metafisica individuando nell’etica la linea di comportamento dell’uomo in quanto soggetto sociale, obbligato, quando si trova con i suoi simili a seguire le leggi, nate in particolari circostanze storiche ed espressione dell’”utile del più forte”, ma ricondotto, nella sua soggettività, ad una condizione interiore anarchica, di libertà assoluta, dove il primo canale della conoscenza, la sensazione, espressa con l’uso sapiente della parola, è quello che procura, a chi sa abbandonarsi alla mimesis, la fruizione dell’arte come “una malattia, più dolce della salute”: la bellezza di Elena, la sua scelta di seguire gli stimoli di Eros, ne  giustifica secondo Gorgia, ogni suo gesto, al di là di qualsiasi pregiudizio morale.
Per secoli si continuerà a discutere sull’oggettività della bellezza, su idee innate, oppure sull’esperienza come veicolo della sensazione, e quindi sulla soggettività dell’interpretazione del bello, sulla kantiana differenza tra  “bellezza estetica”, dove “bello è ciò che piace”, e “bellezza aderente”,  in cui bello è ciò che si riconosce in canoni o principi universali.
Ed è una dicotomia che continua sino ad oggi: tra il secolo del romanticismo e del positivismo e il secolo dell’estetismo decadente si muove  la concezione edonistica di Oscar Wilde: “E’ molto meglio essere bello che buono, ma è meglio essere buono che brutto…..non vi è nulla di ragionevole nel culto della bellezza. E’ troppo splendido per essere ragionevole. Gli adoratori della bellezza saranno sempre giudicati dal mondo come visionari.”, cui si contrappone  la prospettiva morale, se non moralistica,  di Lev Tolstoi,  conterraneo di  Dostoevskij che definisce la bellezza “come l’aureola del bene” :  “La bellezza attira, la bruttezza respinge. Che significa questo? Significa che dobbiamo cercare la bellezza e sfuggire la bruttezza? No, significa che dobbiamo cercare quello che dà come conseguenza la bellezza, e fuggire quello che dà come conseguenza la bruttezza: cercare di essere buoni, aiutare, servire le creature e gli uomini, e fuggire quello che fa male alle creature e agli uomini. La conseguenza di questo sarà la bellezza. Quando tutti saranno buoni, tutto sarà bello.”
Questa rassegna di giudizi e atteggiamenti potrebbe continuare con molte altre illuminanti posizioni delle estetiche contemporanee  che slegano l’arte dalla sua vecchia identità con il bello e con il buono, privilegiando altre dimensioni. Forse il punto più alto della classica fruizione della bellezza, quello che riesce a mediare la potenza devastante del dionisiaco con l’equilibrio armonioso dell’apollineo, è espresso da Nietzsche che si sposta oltre l’immediatezza del sentire e la proietta in un momento filtrato dal tempo, vissuto, rielaborato, alla fine acquisito:  “La più nobile specie di bellezza è quella che non trascina a un tratto, che non scatena assalti tempestosi e inebrianti (una tale bellezza suscita facilmente nausea), ma che si insinua lentamente, che quasi inavvertitamente si porta via con sé e che un giorno ci si ritrova davanti in sogno, ma che alla fine, dopo aver a lungo con modestia giaciuto nel nostro cuore, si impossessa completamente di noi e ci riempie gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia.
L’ultimo flash sull’argomento è quello del film di Sorrentino, “La grande bellezza”, dove i rivoli della bellezza si perdono nella degenerazione edonistica che di essa riescono a farne i protagonisti di una realtà e di una condizione sociale senza più punti di riferimento.

Liberarsi dagli occhiali
Nel caso di Peppino etica ed estetica diventano categorie della politica.  E’ già nel rapporto interpersonale, e quindi politico, che si costruisce l’unità di misura  del bene e del bello.  Difficilmente all’operaio sembrerà bella quella che per il suo padrone è la geometrica armonia della sua fabbrica; difficilmente, nella sua corsa alla sopravvivenza, nella morsa della “legge bronzea dei salari”, nell’alienazione quotidiana da un lavoro che “deve” fare, ma che  non gli appartiene, egli troverà il tempo per visitare i luoghi della bellezza, per comparare volti e ritratti, per proiettarsi nelle realizzazioni della moda o dell’arte o per ritrovare briciole di se stesso nei versi degli altri, meno che mai nei suoi. La sua casa, il suo ambiente, la sua donna, i suoi figli hanno la sola bellezza  inzuppata di  quotidianità, di ripetitività, che solo l’affetto può colorare e lasciare sopravvivere. Naturalmente il riferimento non è solo all’operaio, ma ai tanti fantozzi, ai tanti delusi Prufrock, alle tante categorie che vivono  ai margini  della società e che ne costituiscono l’ossatura.
E quindi, da questo aspetto, la bellezza è un optional. Non diverso il rapporto con l’etica, da cui la bellezza sarebbe liberata, diventandone una conseguenza. “La morale è un lusso che ci si può permettere quando si ha la pancia piena” diceva Bertold Brecht. Difficile parlare di “bellezza delle leggi” o dei comportamenti, specie quando questi sono obbligati e intrappolati da norme coercitive. Ancor più difficile quando si prende coscienza che queste norme  sono fatte o usate per privilegiare alcune classi sociali,  sono eludibili quando si hanno i mezzi economici per farlo e sanciscono disuguaglianze verniciate da apparente giustizia.  Arriviamo così a un’accoppiata, a un’identità spesso confusa tra educazione antimafia e educazione alla legalità, senza renderci conto della “specificità” dell’educazione antimafia: quando ascolto maestre e professori dire che anche non buttare la carta a terra è fare antimafia, rabbrividisco se penso alle lotte di Peppino o di Placido Rizzotto per comunicare agli uomini  che la legalità non è il rispetto delle leggi e la lotta per la loro conservazione, ma la capacità di saper lottare per cambiarle nel momento in cui esse non si rivelano adeguate per favorire la completa realizzazione dell’uomo. L’antimafia è invece qualcosa di più, è la capacità, per prima cosa, di sapersi mettere in discussione, di individuare dentro di sè le remore, le sedimentazioni storiche che  ci hanno portato a credere nell’immutabilità della legge del più forte, e quindi del più violento e nell’adeguazione passiva, opportunistica, di altri uomini a queste norme, diventate condizioni di sopravvivenza, condizioni del vivere, introduzione e riadattamento dell’illegalità nel contesto  ufficiale e apparente della legalità.  In pratica un paio di occhiali fatto di accettazione, di conservazione, di rassegnazione, di svendita, di complicità, di privilegi,  di cui bisogna imparare a liberarsi: è questa la dimensione di Peppino “ribelle”. E l’obiettivo finale , non è  per vedere, ma per costruire  quello che c’è oltre, ovvero una condizione in cui l’intelligenza dell’uomo sappia risolvere la dicotomia tra pastori e pecore, diventare protagonismo e costruire la dimensione dell’uguaglianza sociale, che, infine, è e rimane la dimensione escatologica della bellezza.