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ciotti-luigi-web8di Luigi Ciotti - 10 gennaio 2014
Provo grande amarezza nel vedere com’è stata riportata su un quotidiano una vicenda che riguarda il mio rapporto con Filippo Lazzara. In questi anni mi sono sempre imposto, a fronte di dicerie e cattiverie arrivate da più parti, di tacere per rispetto della fragilità di Filippo. Ora però, anche per il rilievo pubblico che Filippo Lazzara ha inteso fare assumere alla vicenda, credo sia necessario fare chiarezza e sgombrare il campo da molte falsità.  Prima di entrare nel merito, è però necessario delineare il contesto in cui s’inserisce la vicenda. Ormai da quasi cinquant’anni il Gruppo Abele cerca di dare una mano alle persone in difficoltà, senza fare distinzioni né selezioni, tenendo sempre la porta aperta. È una scelta alla quale siamo rimasti fedeli benché non sempre l’accoglienza abbia trovato le migliori condizioni per realizzarsi, a volte per il carattere delle persone, a volte per i nostri limiti a capirle, altre volte ancora per fattori che non dipendono dagli uni o dagli altri ma che fanno semplicemente parte della vita e del suo imprevedibile svolgersi. Se non si tiene conto di questo è difficile capire l’accaduto senza incorrere in inesattezze, giudizi sommari, ricostruzioni inattendibili o motivate da scopi non propriamente nobili.

Filippo e la compagna Antonietta scrivono una prima volta al Gruppo Abele, a Libera e alla mia attenzione il 17 giugno 2010. Parlano dei loro tentativi, andati a vuoto, di costruirsi un futuro in Sicilia. (…) «Scottati di dare perle ai porci non optiamo per le ghiande ma, da “coppia” che urla nel deserto, invochiamo aiuto tendendovi le mani con la provvidenziale speranza che le prendiate e ci aiutate tirandoci su da voi, non solo metaforicamente ma di fatto… disponibili a tutto pur di farci una famiglia». Accogliamo l’invocazione di aiuto. Incontro Filippo e Antonietta durante una mia trasferta in Sicilia, e mi offro di cercare una soluzione ai loro problemi. All’inizio di settembre Filippo e Antonietta vengono accolti nella Certosa di Avigliana, la struttura residenziale nella quale il Gruppo svolge le sue attività di formazione, all’epoca ancora in via di completamento dal punto di vista dell’abitabilità, dell’organizzazione del lavoro e del progetto culturale.  Fin da subito, però, iniziano i problemi. Filippo è impulsivo, conflittuale, indisponibile a stabilire un rapporto rispettoso con le persone che lavorano in Certosa, dagli operatori agli operai impegnati nel cantiere. Un giorno arriva a minacciare un muratore colpevole secondo lui di importunare la sua ragazza. Ma non si tratta solo di diverbi o atteggiamenti aggressivi. Filippo è preda di vere e proprie fissazioni. Più volte i Carabinieri di Avigliana vengono chiamati perché lui assicura di aver visto aggirarsi presenze ostili, un’altra volta è dovuta intervenire una funzionaria della Questura di Torino. Gli allarmi si rivelano sempre infondati.  Vista la situazione, il 7 novembre 2010 Filippo e Antonietta vengono trasferiti a Torino in un appartamento in uso al Gruppo Abele. Di lì a poco, Antonietta verrà regolarmente assunta in uno dei nostri progetti educativi, mentre si continua a cercare per Filippo, dentro o fuori al Gruppo, una collocazione idonea. Ciò nonostante l’atteggiamento da parte sua non cambia.
Me ne rendo conto io stesso il 16 novembre 2010, pochi giorni dopo il trasferimento a Torino, quando ricevo un lungo messaggio nel quale mi rimprovera aspramente di non aver risposto subito a una sua richiesta di colloquio. A colpirmi è però soprattutto il passaggio in cui, rievocando le difficoltà incontrate in Sicilia, scrive di aver «praticato sul campo, come forza civile e sociale, antimafia e giustizia, scottandomi arrabbiandomi. In prima persona e senza ricerca di poltrone effimere ma di opinione opere e coscienza critica! Subendo denigrazioni, alcune cercate da me, per creare il “personaggio” e per “guasconamente” disarmare “o’ sistema”». E un altro in cui, parlando della situazione che aveva creato in Certosa, scrive: «tu, anziché verificare in prima persona e/o magari “premiarmi”, ascolti chi non ha facoltà di farsi un’idea di me, perché banalmente piccolo di strutto o di pensiero». Sono segni di un preoccupante egocentrismo, tale da falsare la percezione della realtà. Ma la nostra storia di accoglienza è piena di storie difficili, e come sempre decidiamo di scommettere sulla persona nella speranza che la vita quotidiana e il progressivo coinvolgimento portino a sciogliere nodi e smussare asperità. Nel caso di Filippo purtroppo non accade. Continuano le pretese, le rimostranze, le ossessioni. E nei miei riguardi il tono comincia a farsi minaccioso, come testimoniano diversi sms recuperati dalla memoria di un mio vecchio telefono cellulare.
«A parte stimarti, ti reputo corresponsabile della mia situazione» (sms del 30 gennaio 2011); «Non capisco cosa è successo… ma personalismi, autoritarismi, dittature con me no! A venir su ci ho messo la faccia. Se ce la rimetto io non sarò il solo a rimettercela!». (sempre 30 gennaio 2011); «Hai creduto a gente che non è degna di essere appellata della famiglia dei suini!» (2 marzo 2011).
Con queste premesse, venerdì 4 marzo 2011 arriva un messaggio che anticipa ciò che “bolle in pentola” e che si sarebbe verificato quasi tre anni dopo: «Non ho più niente da perdere, mi dispiace, ma ciò che accadrà non sarà colpa mia, non volevo ciò, ma la colpevole indifferenza è una dichiarazione personale di guerra! E guerra sia! Saluti dalle redazioni di Libero e Padania… ».
All’incontro fissato per il giorno successivo, sabato 5 marzo 2011, Filippo arriva carico di aggressività. La stanchezza e il suo atteggiamento provocatorio mi fanno perdere la calma. Preciso però che non ho “preso a cazzotti” nessuno, come è scritto nell’articolo di “Libero”, tantomeno ho dato “pugni in faccia”, come invece si dirà nella denuncia ai Carabinieri. L’ ho allontanato con molta decisione, come farebbe un fratello maggiore esasperato dall’insolenza del fratello più piccolo. Il giorno dopo, con lo stesso spirito fraterno con cui avevo posto freno alla sua aggressività, gli scrivo la lettera che ha reso pubblica, nella quale mi scuso con lui, gli faccio notare che quel suo modo di fare non favoriva certo una pacata discussione, gli ribadisco che la Certosa non era il posto più adatto per lui e lo invito a rivederci il sabato successivo per ricostruire insieme un progetto: «senza pretese e con reciproca disponibilità». Il 7 marzo 2011 Filippo risponde: «La scorza ce l’ho dura!… E poi un po’ provocatore lo sono! A volte anche per attirare l’attenzione! Volentieri per sabato alle 18! Speriamo che con il GIORNALE niente accada… Il tuo gesto un po’ fragile ti rende più grande e grandissimo nel chiedermi scusa. Chiedo scusa per il caos a te e a quanti in buonafede».
La stessa sera, pero’. si reca al pronto soccorso dell’Ospedale Maria Vittoria di Torino. “Riferisce lesioni” è scritto nei referti. Ma gli stessi referti, in seguito agli esami predisposti (TAC e raggi al ginocchio sinistro) non evidenziano alcun danno. Il 12 marzo 2011 ci rivediamo alla sede del Gruppo Abele e c’impegniamo insieme a cercare un lavoro a Torino. Nel frattempo, vista la sua fragilità, gli consiglio di essere seguito da uno psicoterapeuta e da un neurologo che lo sorreggano e aiutino nei suoi momenti di difficoltà: Filippo accetta il consiglio.
La ricerca del lavoro non ottiene però i frutti sperati, e allora – anche su consiglio dei medici, convinti che la situazione di Filippo richieda un contesto diverso – mi offro di sostenerlo anche economicamente per il tempo che sarà necessario nel suo ritorno in Sicilia e nella sua ricerca di altre opportunità di vita. I vaglia e bonifici spediti tra la fine di giugno e la fine di ottobre sono lì a dimostrarlo. Non mi pare il comportamento di chi voglia abbandonare una persona, tanto meno fargli «terra bruciata attorno», come è scritto nell’articolo.
Nel luglio del 2011 Filippo e Antonietta tornano in Sicilia, ma prima, il 3 giugno 2011 alle 22.25 (ossia poche ore prima dello scadere dei 90 giorni entro i quali deve essere presentata una denuncia/querela) Filippo si reca alla stazione dei Carabinieri Torino-Monviso di via Valfré per riferire ciò che è avvenuto il 5 marzo 2011. La denuncia/ querela contiene diverse falsità – dai “pugni in faccia” mai ricevuti, all’interruzione del rapporto con la Certosa, “per motivi di ristrutturazione” – e viene prudentemente ritirata nei giorni successivi.
Nel frattempo continuano i messaggi, ma il tono e il linguaggio mutano radicalmente. «Ti ringrazio per il tentativo, per l’ospitalità e per Antonietta. Mi spiace per come è andata, e per certe falsità che ho sentito… Ma tu non c’entri con tutto ciò!» (24 settembre); «Grande Luigi, auguri a te e quanti con te lo passeranno. Auguri anche a tutta la gente che tramite te, Libera e Gruppo Abele, ho conosciuto a Torino, anche quelli con cui non ci si è capiti, anzi soprattutto quelli». (25 dicembre 2011); «Ti voglio bene, sono vero, e ti saluto col cuore!». (17 gennaio 2012).
Per tutto il 2012 seguono altre mail dal tono sempre affettuoso. Incomprensibile è adesso, invece, il diverso atteggiamento di Filippo Lazzara, che da un lato invia mail dai toni concilianti e dall’altro decide di pubblicare quella lettera ormai datata e, direi, “superata” dai fatti, gli stessi fatti a cui ho cercato di dare parola in una ricostruzione motivata dal semplice rispetto della verità. Verità che, a malincuore, mi trovo costretto a difendere anche in sede giudiziaria, non tanto per me stesso ma per la storia di realtà, il Gruppo Abele e Libera, che in questi anni si sono caricate sulle spalle le speranze di tante persone e non meritano di ricevere in cambio insulti. Che riflessioni s’impongono a questo punto? Credo sostanzialmente due.  La prima riguarda l’etica dell’informazione. Prima di pubblicare – e soprattutto quando le notizie riguardano la vita e i sentimenti delle persone – credo che sia necessario approfondire, capire i fatti nelle loro molteplici sfaccettature, nei loro aspetti spesso contraddittori. Se chi ha scritto quelle cose avesse avuto qualche sano dubbio e avesse sentito tutte le “campane” (magari venendo a verificare di persona come si svolge l’accoglienza al Gruppo Abele e a Libera) si sarebbe reso conto delle difficoltà di Filippo e avrebbe avuto qualche scrupolo prima di amplificare gli aspetti più fragili del suo carattere. Ma qualche scrupolo sarebbe il caso se lo facessero venire anche tutti quelli che, fuori dal mondo dell’informazione, hanno assecondato e strumentalizzato Filippo senza fare nulla di concreto per risolvere le sue difficoltà.
La seconda riflessione riguarda il nostro impegno.  Episodi come questo amareggiano e ti fanno venire la tentazione di diventare più selettivo, più diffidente. In una parola: più avaro. Ma è una tentazione che dura un solo istante. Voglio rassicurare tutti (e anche Filippo, innanzitutto) che il Gruppo Abele e Libera continueranno nella loro attività con la stessa fiducia, disponibilità, voglia di scommettere sulle persone, sulla loro sete di dignità e libertà. Ma anche con la stessa coscienza dei limiti, con gli stessi dubbi fecondi che hanno sempre accompagnato il nostro cammino.  È il nostro “esserci”: fare insieme agli altri, facendo dunque anche errori, perché solo chi non fa è impeccabile. Ma sempre mettendoci in gioco, con onestà e passione, senza mai fermarsi alla superficie delle persone e delle cose.

Tratto da: liberainformazione.org