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travaglio-c-barbagallo-190713di Marco Travaglio - 7 dicembre 2013
L’altro giorno il ministro dell’Interno Angelino Alfano ne ha fatta una giusta (capita a tutti, non c’è da preoccuparsi) ed è sceso a Palermo insieme al capo della Polizia, Alessandro Pansa, per solidarizzare e confrontarsi con i magistrati minacciati. Il più bersagliato è Nino Di Matteo, titolare dell’inchiesta sulla trattativa, ma c’è anche Nico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta. Alla fine il ministro, accanto alle consuete giaculatorie retoriche sulla fermezza dello Stato (magari), ha buttato lì una frase che soltanto un paese addormentato come l’Italia può lasciar cadere nel vuoto: “Cosa Nostra ha la tentazione di tornare alla stagione delle stragi”. L’allarme è scattato dopo le conversazioni, intercettate in cella, fra Totò Riina e un malavitoso calabrese, in cui il capo dei capi rivendica la strategia stragista del 1992-'93 e minaccia più volte di morte Di Matteo con parole truculente e toni rabbiosi proprio per il processo sulla trattativa (dove – dice – “questi cornuti portano pure Napolitano”, cioè lo citano come testimone). Purtroppo da Napolitano non è ancora giunta una sola parola di solidarietà a Di Matteo, addirittura processato disciplinarmente per un’innocua intervista dal Csm e delegittimato dal Colle con i mille distinguo sulla testimonianza del presidente. Ma a Di Matteo i responsabili dell’ordine pubblico hanno rafforzato la scorta, che sarà presto dotata di un bomb jammer (il dispositivo che neutralizza i radiocomandi utilizzati per gli attentati).

Il modo migliore per garantire la sicurezza dei magistrati è però quello di capire che cosa sta accadendo nelle teste e nelle file di Cosa Nostra. Riina, checché se ne dica, non è un boss in pensione. È tuttora uno dei due capi più influenti di Cosa Nostra, insieme a Matteo Messina Denaro, che condivide con lui e con pochissimi altri gli arcani della strategia stragista aperta nel '92 e chiusa (per ora) nel '94. Il boss trapanese guidava il commando inviato a Roma all’inizio del '92 per assassinare Falcone e poi rientrato a Palermo quando si optò per la spettacolare strage di Capaci. E, secondo il pentito Giuffrè, conserva le carte sulla trattativa custodite da Riina nel covo di via Bernini che il Ros lasciò gentilmente perquisire a Cosa Nostra. Perché Riina è così inferocito per il processo sulla trattativa? Alla luce di quanto è emerso finora negli atti depositati, non ne avrebbe alcun motivo. Anzi, potrebbe godersi il ruolo di protagonista del Grande Ricatto che costrinse lo Stato, a suon di bombe e di papello, alla resa senza condizioni. L’unico motivo plausibile della sua rabbia è il timore di quello che potrebbe emergere nel prosieguo delle indagini, che continuano in gran segreto sia a Palermo sia a Caltanissetta. E cos’è che potrebbe emergere? Lo dice implicitamente lui stesso quando – ben conscio di essere ascoltato in cella – rivendica con orgoglio la paternità della mattanza del 1992-'93. Come a dire: nessuno pensi di riscrivere la storia di quegli anni. Intanto però affiorano elementi sempre più circostanziati su presenze esterne a Cosa Nostra tanto a Capaci (uomini di apparato a fornire l’assistenza logistica) quanto in via D’Amelio (uomini d’apparato nel garage dove fu imbottita di tritolo la Fiat 126, “servitori dello Stato” addetti al trafugamento dell’agenda rossa di Borsellino e al depistaggio che fece ricadere la colpa dell’eccidio sull’innocente Scarantino anziché su Spatuzza e sui Graviano). Se emergesse che il marchio Stato-mafia non è impresso solo sulla trattativa, ma anche sulle stragi che la originarono, la sollecitarono e la portarono a compimento, la storia di quella stagione si ribalterebbe. E Riina apparirebbe non più il protagonista, ma un comprimario, o addirittura la pedina di un gioco più grande che strumentalizzò Cosa Nostra nel ruolo di manovalanza e alla fine, dopo averlo usato, scaricò il boss con la solita trappola. Ora queste storie che vengono dal passato incrociano esigenze più prosaiche e contingenti.
La crisi economica mette in ginocchio anche il racket delle estorsioni (i commercianti e gl’imprenditori che falliscono e il crollo del 60% degli appalti in Sicilia hanno fortemente ridotto la platea del pizzo) e le confische di beni impoveriscono l’economia mafiosa. Tant’è che negli ultimi mesi s’è registrata una forte escalation di minacce a giudici, amministratori giudiziari e consulenti impegnati nelle misure di prevenzione, a Palermo e Trapani. Insomma monta fra i picciotti l’insofferenza per la Pax Mafiosa imposta da Provenzano 20 anni fa e la voglia di un uomo forte alla Riina che costringa i giudici alla ritirata anche sul fronte dei soldi. Intanto s’infittiscono le voci di infiltrazioni mafiose nei movimenti di protesta anche spontanei, come quelli dei tir, dei forconi e degli edili. È il saldarsi di queste pressioni che salgono dal basso e dal presente con quelle che vengono dal-l’alto e dal passato che a Palermo surriscalda la temperatura a livelli mai visti in vent’anni. E fa temere il ritorno alle stragi. Anche perché il repentino tracollo della Seconda Repubblica riproduce le stesse condizioni d’incertezza del '92, quando Cosa Nostra pretese di sedere al tavolo dove si distribuivano le carte del nuovo sistema politico. E parlò con il suo linguaggio più persuasivo: il tritolo. “Fare la guerra per fare la pace”, diceva Riina. E, fra guerra e pace, ci fu la trattativa.
Chi oggi parla di rischio stragista dovrebbe essere più esplicito e dire tutto quello che sa e ha capito: il miglior modo che ha lo Stato di proteggere i pm è quello di raccontare finalmente la verità. I mafiosi la conoscono benissimo. Gli italiani ancora no.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Foto © Giorgio Barbagallo