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riina-salvatore-sbarre-051213Intervista al procuratore capo di Caltanissetta
di Andrea Purgatori
- 5 dicembre 2013
Il Capo dei capi Totò Riina, intercettato durante l’ora d’aria nel carcere di Opera, che minaccia di morte il sostituto procuratore Nino Di Matteo, Pm nel processo sulla trattativa Stato-Mafia. Martedì, a Palermo, la riunione straordinaria del Comitato per la sicurezza con i vertici delle Procure di Palermo e Caltanissetta, i comandanti di Carabinieri, Finanza, il capo della Polizia, soprattutto con la presenza del ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Che poche ore dopo consegna all’opinione pubblica una dichiarazione choc: “Non possiamo escludere la tentazione di una ripresa della strategia stragista”. Un allarme inconsueto, improvviso che nasconde qualcosa di più? Cosa si sta muovendo nella testa e nella pancia di ciò che resta dell’organizzazione mafiosa? Quello di Riina è stato lo sfogo rabbioso di un uomo provato da vent’anni di carcere duro o un messaggio per l’esterno? Lo abbiamo chiesto a Sergio Lari, Procuratore capo della Repubblica di Caltanissetta, che ha in mano le indagini sulle stragi degli anni Novanta che costarono la vita a Falcone e Borsellino e oggi anche quelle sulle minacce ai magistrati palermitani.

Procuratore Lari, cosa avete detto al ministro Alfano nella riunione che ha scatenato l’allarme?
“Molto semplicemente, io e i colleghi di Palermo abbiamo espresso le nostre valutazioni sullo stato dell’organizzazione mafiosa e sulla possibilità che ci possa essere un colpo di coda di Cosa Nostra, col rischio concreto di una ripresa di quello stragismo che tra il 1992 e il 1993 ha insanguinato la Sicilia e l’Italia”.

Valutazioni fatte su quali basi?
“Per quanto mi riguarda, ho tenuto conto di diversi elementi, compresi i procedimenti penali aperti a Caltanissetta nei quali sono parti offese i magistrati di Palermo. Indagini avviate in seguito agli scritti anonimi pervenuti dalla fine del 2012 alla fine del 2013, in cui si parla di potenziali attentati nei confronti del dottor Di Matteo e di magistrati della nostra città”.

Che senso avrebbe un colpo di coda, se apparentemente Cosa Nostra sembra assestata su una strategia di basso profilo?
“Per capirlo dobbiamo fare un’analisi di questa evoluzione. Lo stragismo ha il suo culmine dopo l’arresto di Totò Riina il 15 gennaio del 1993, quando le redini dell’organizzazione vengono prese da Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e dal gruppo dirigente che si riconosce nella linea dettata da Riina”.

L’ala stragista corleonese di Cosa Nostra.
“Esatto. Non dimentichiamoci che alcuni collaboratori ci hanno raccontato che la mattina in cui fu arrestato, sembra che Riina si stesse recando ad una riunione in cui si doveva mettere a punto una ripresa della campagna stragista”.

Cosa che in effetti avvenne.
“Nella primavera-estate, con attentati a Roma, Firenze e Milano perché Provenzano aveva ottenuto che le stragi fossero portate a termine solo oltre lo stretto di Messina, nel continente. Poi, tra il ’95 e il ’96, Bagarella e Brusca vengono arrestati e la guida ela strategia di Cosa Nostra passano nelle mani di Bernardo Provenzano e dei suoi fedelissimi, tra i quali spicca la figura di Nino Giuffrè”.

Poi Giuffrè viene a sua volta arrestato e collabora.
“Esatto. Fui io a coordinare le indagini per la sua cattura e, insieme all’allora procuratore Pietro Grasso e ad altri colleghi, a gestire quella collaborazione che fu preziosissima perché ci consentì di ricostruire tutta la cosiddetta fase B della strategia post-stragi”.

La transizione dalla linea di Riina a quella di Provenzano.
“Dopo gli arresti che portano alla decapitazione dell’ala stragista corleonese, Provenzano si occupa soprattutto di ricostituire l’ordine gerarchico nella Cosa Nostra palermitana, mentre a Giuffrè spetta il compito di ricreare i collegamenti nel resto della Sicilia. Ma sarebbe un errore pensare che tra Riina e Provenzano si fosse creata una frattura. C’è una famosa intercettazione effettuata sull’utenza di Pino Lipari a San Vito Lo Capo, in cui si dice chiaramente che le stragi volute da Riina possono essere state un errore ma vanno considerate acqua passata perché l’organizzazione deve guardare al futuro”.

Quindi, nessuna rottura tra i due Capi dei capi?
“E nessun ripudio delle stragi. Cosa Nostra è sempre stata una e quando ha deciso di dichiarare guerra allo Stato lo ha fatto compatta. Non esistono un Bernardo Provenzano buono e un Totò Riina cattivo. Provenzano è artefice e complice di Riina in tutta la campagna stragista. Poi capisce che le conseguenze sono pesantissime, tra arresti e 41bis a tutto spiano, allora rinuncia allo scontro frontale e decide l’inabissamento dell’organizzazione. La fase B, appunto”.

La fase C comincia dopo la cattura di Provenzano?
“Beh, quando nel 2006 viene arrestato il colpo è durissimo. Il vertice scricchiola. Persino Matteo Messina Denaro che tra i grandi capi è l’ultimo a non essere ancora caduto nella rete, direi l’ultimo dei mohicani, nella gerarchia gli era sottomesso. Poi segue un periodo di inazione e Cosa Nostra subisce l’offensiva della magistratura”.

Non considera Messina Denaro all’altezza di guidare l’organizzazione?
“Tutt’altro. Al momento è l’unico tra gli stragisti ad avere la capacità di riproporre azioni eclatanti. E’ il capo indiscusso della provincia di Trapani e dei quattro mandamenti che la compongono ed esercita il suo carisma anche in altre zone della Sicilia. Penso soprattutto al mandamento di Bagheria, dove ha sempre avuto grande influenza anche per ragioni di parentela. Ma non si può dire che sia il capo della cupola regionale, semplicemente perché quella cupola non esiste più. Però è sicuramente il depositario di tutti i segreti dello stragismo degli anni Novanta e l’ultimo della vecchia guardia a poter fare da catalizzatore nella ricostruzione di una nuova leadership regionale”.

Dal punto di vista di Cosa Nostra, quali vantaggi porterebbe una nuova stagione stragista?
“Se stiamo ad alcuni scritti anonimi, dovrebbe essere sostanzialmente una risposta al mancato alleggerimento del regime carcerario duro per i boss”.

Così torniamo alla sostanza della trattativa Stato-Mafia?
“Purtroppo, sì. Il 41bis è rimasto inalterato, di revisione dei processi non se ne parla, la morsa dello Stato non si è allentata, quindi si dovrebbero trovare altre forme di pressione perché la politica dell’inabbissamento voluta da Provenzano si è rivelata fallimentare. Ma secondo altri anonimi una nuova fase stragista sarebbe richiesta da forze occulte esterne a Cosa Nostra per evitare che il potere politico possa finire nelle mani di “comici” e “froci”…”.

Lei crede davvero che Cosa Nostra abbia paura di Beppe Grillo?
“Questo scrivono gli anonimi. Cioè, lo scrivevano prima delle elezioni”.

Se le dicessi che eventuali nuove stragi potrebbero essere decise come forma di pressione per evitare che le vostre indagini su Capaci e via D’Amelio vadano più a fondo, sbaglierei?
“Qui entriamo nel campo delle ipotesi. Cosa Nostra ha regole assolute che nella storia non sono mai cambiate. Chi è a capo dell’organizzazione, lì rimane. Chi ne esce, è perché muore o collabora con la giustizia. Se un boss è detenuto rimane a capo del proprio mandamento e al massimo ci può essere un reggente. Quindi, ha fatto scalpore il fatto che Riina si sia lasciato andare a quelle affermazioni così violente nei confronti del processo sulla trattativa e del collega Di Matteo. E ci si è domandati: come mai un uomo che ha subito tanti ergastoli si sta occupando di un processo alla fine del quale potrebbe avere qualche anno di reclusione in più?”.

Domanda legittima. La risposta?
“Difficile. Dobbiamo considerarlo lo sfogo di chi dopo vent’anni di 41bis, non vedendo spiragli per sé né per gli altri, esprime la sua vera natura di killer sanguinario che dice: se io fossi fuori a Di Matteo gli farei fare la fine del tonno, cioè la fine che ha fatto fare a Falcone e Borsellino? Il dato oggettivo è che, a distanza di vent’anni, noi a Caltanissetta abbiamo scoperto che il tritolo per le stragi di Capaci, via D’Amelio e per tutte quelle nel continente era di provenienza militare, procurato dal gruppo di Brancaccio comandato da Giuseppe Graviano e dai vertici del mandamento, tra cui Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina. Fare luce in quel buco nero che sembrava essere la ricostruzione dell’organigramma della strage di Capaci, ha portato all’arresto di otto persone, sette delle quali già detenute, che dopo anni e anni di detenzione ora dovranno fare di nuovo i conti con pesanti condanne e col 41bis, tornando indietro come nel gioco dell’oca”.

Stessa cosa per l’indagine sulla strage di via D’Amelio.
“Infatti, consideri che se da una parte sono state scagionate undici persone di cui sette condannate all’ergastolo e già scarcerate, dall’altra ne abbiamo individuate nove di cui cinque già sottoposte a giudizio, tre condannate, voglio dire…”.

Che lo Stato alla fine i conti li fa. E anche Riina.
“E non si può escludere che questo lo mandi in bestia, perché si sente di perdere la faccia davanti a tutta l’organizzazione”.

D’accordo, però le rifaccio la domanda: dietro la nuova minaccia stragista non ci sarà la paura di qualcos’altro? Di qualche entità esterna a Cosa Nostra che ha suggerito, agito, coperto le stragi del passato?
“Questo non lo posso escludere. E’ un pensiero che ho fatto anch’io, che ci sia qualche segreto inconfessabile e che Riina sia terrorizzato che possa venir fuori”.

La preoccupazione che possa accadere qualcosa ha messo in moto una macchina che non si era messa in moto né tre, né sei mesi fa. Perché così all’improvviso?
“Perché si è riunito il Comitato per la sicurezza…”.

Non solo. Un esponente di primo piano del governo, il ministro Alfano, ha partecipato e poi ha detto pubblicamente che il rischio di nuove stragi c’è.
“E merita un plauso, se solo ricordiamo l’isolamento che ci fu ai tempi di Falcone e Borsellino, a cui non fu concessa nemmeno la rimozione delle auto sotto casa della madre in via D’Amelio dove si recava puntualmente. Invece martedì noi abbiamo avuto un ministro dell’Interno il quale ci ha detto: qualunque cosa di cui abbiate bisogno non dovete fare altro che chiederla e vi sarà data. E lo ha detto davanti al comandante dei carabinieri, a quello della Finanza e al capo della Polizia. Da questo punto di vista noi ci siamo sentiti molto confortati”.

Soprattutto il procuratore Nino Di Matteo.
“Se volesse, sarebbero pronti ad accompagnarlo da casa al tribunale con un tank di quelli che si usano in Afghanistan. Starà a lui decidere, è una scelta che tocca anche la qualità della vita personale. Ma sapere che lo Stato è alle nostre spalle fino a questo punto non è un fatto indifferente, solo se pensa a Riina che nel suo sfogo nel carcere di Opera lo dice chiaramente: tanto quello prima o poi in tribunale ci deve andare. Abbiamo a che fare con gente che per uccidere Falcone, la moglie e la scorta ha fatto saltare in aria 300 metri di autostrada”.

Secondo voi le esternazioni di Riina sono solo uno sfogo nel chiuso di un carcere di massima sicurezza o sono state raccolte come una precisa indicazione anche all’esterno, da Cosa Nostra?
“Mah, il paradosso è stato proprio rendere pubbliche quelle frasi che Riina ha rivolto a un detenuto pugliese con cui stava passeggiando nel cortile del carcere, con una terminologia e una modalità che ci fanno chiaramente pensare che non sapesse di essere intercettato. Infatti, nei colloqui coi familiari è completamente un’altra persona e si guarda bene dal fare dichiarazioni confessorie come quelle registrate in quell’ora d’aria in cui si accredita la responsabilità delle stragi del ’92, dice come le ha fatte e si vanta di essere il numero uno in quanto a stragi commesse. Averle pubblicate ha reso noto anche al popolo di Cosa Nostra quello che pensa e farebbe Totò Riina”.

Lei che conosce bene la sua psicologia, crede davvero che mentre diceva quelle cose si sentisse al riparo da una possibile intercettazione?
“Guardi, io l’ho interrogato due volte e credo di essermi fatto un’idea molto chiara della sua personalità. Riina ha un’alta considerazione di se stesso. Ma le frasi che ha pronunciato, le sue vanterie, soprattutto con un detenuto che non fa parte dell’organizzazione, sinceramente devo dire che non rientrano nei canoni comportamentali di un Capo dei capi di Cosa Nostra”.

Quindi, è lecito porsi qualunque domanda sul perché le abbia dette.
“Esattamente. E’ lecito porsi qualunque domanda. Ma bisogna anche considerare che da vent’anni è rinchiuso in regime di carcere duro e ci risulta che consideri quel detenuto come una persona di cui si può fidare. Ci sta che dopo vent’anni anche uno come lui abbia avuto un cedimento e si sia lasciato andare come mai avrebbe fatto prima”.

Se dovesse fare una fotografia di Cosa Nostra aggiornata a dicembre di quest’anno, come la descriverebbe?
“Non è quella dei primi anni Novanta, quando esisteva una cupola regionale e sul territorio era organizzata con i mandamenti, le famiglie, con un organigramma al completo. Oggi Cosa Nostra è molto indebolita, gran parte dei capi provincia sono stati arrestati e fatica a trovare sostituti con la stessa qualità dei boss che c’erano prima. Ma sarebbe sbagliato pensare di aver vinto la battaglia, perché tutti i capi che non sono stati condannati all’ergastolo appena escono dal carcere riprendono in mano le redini della situazione. E i segnali che abbiamo sono quelli di un’organizzazione che continua a mantenersi in vita col traffico degli stupefacenti e l’imposizione del pizzo”.

La stagione dei veleni e delle polemiche tra le procure siciliane è finita?
“Negli ultimi tempi ci incontriamo spesso e i rapporti sono di cordialità e collaborazione a 360 gradi. Lo posso dire tranquillamente”.

Procuratore, lei ha paura?
“Guardi, negli ultimi anni non mi sono fatto mancare niente, dalle minacce alle buste coi proiettili. Poi, se vuole saperlo, una settimana fa alle quattro e mezza di notte ho ricevuto un pacco di rosticceria… qua in Sicilia avvengono le cose più strane, ormai ci siamo abituati. Ma se uno dovesse vivere sempre con la paura non potrebbe andare avanti. Paolo Borsellino diceva: se hai paura, muori ogni giorno; se non hai paura, muori una volta sola. E’ una bellissima frase, l’ho fatta mia”.

Tratto da: L'Huffington Post