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garofalo-c-simona-caninodi Sabrina Garofalo - 29 ottobre 2013
Sono partita di notte, dal finestrino dell’aereo ho guardato le luci di una Calabria che diventava sempre più piccola e lontana, pensando a quel viaggio simile che Denise e Lea avevano un tempo percorso partendo da qui. La mia riflessione parte da qui, in questo viaggio verso Milano per accompagnare Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa a Milano nel novembre del 2009, e stare accanto a Denise, sua figlia. Qui significa Calabria, significa partire da una terra violentata e umiliata ma che diventa terra di rinascita e di speranza. Al di là delle retoriche e delle parole vuote.

Lea è stata accompagnata da giovani donne, è questa la prima immagine che mi porto dentro. Come Rita Atria tanti anni fa, anche Lea è stata portata in spalla da donne, giovani che hanno portato con commozione e orgoglio il peso leggero di una bara, segno indelebile della ’ndrangheta che annulla i corpi ma non può e non riesce ad annullare le idee dirompenti di libertà e desiderio di liberazione. Una immagine forte che richiama semplicità e ordinarietà di un cammino. E poi la piazza: generazioni di donne e uomini unite dal silenzio che contempla, che ascolta. Ho attraversato la piazza ed ho guardato i volti commossi di uomini adulti bagnati dalle lacrime. Ho visto giovani studenti abbracciati come se partecipassero al dolore di una loro compagna di classe. Ho visto donne sventolare la bandiera con forza. Ho guardato negli occhi chi con me condivide la corresponsabilità di un impegno, non c’è stato bisogno di parole. Ho ascoltato le parole di canzoni scelte col cuore, pensando a quegli “occhi pieni di sale, di quel sale mattutino che tu prendi in riva al mare, di quel sale che a pensarci ti viene voglia di guardare”.

In quella piazza il saluto di Denise, “le parole non sono più lacrime, le lacrime sono diventate parole, e le parole sono pietre” (Carlo Levi). Le sue parole, inaspettate e forti, la voce decisa e fragile, sono state pietre che lanciate in acqua hanno causato onde e cerchi sempre più larghi. Onde che si sono trasformate in domande dolorose. Dove eravamo? Dove ero io quando Lea ha fatto la sua scelta? Quando Denise ha scelto di portare avanti e condividere la lotta verso la verità e la giustizia? Non c’eravamo. Non ci siamo state. Non c’ero. Eppure eravamo qui, in questa terra, a qualche ora di strada. Il peso leggero di una bara si trasforma in un macigno, pesante, quello dell’indifferenza, della paura, del nasconderci dietro comode scelte. Mi interrogo allora sul senso delle parole, e sul coraggio delle parole, come ricordato da Luigi Ciotti. In quella piazza c’era la Calabria, c’era chi prova a costruire quotidianamente spazi e tempi di democrazia e libertà, chi non ha bisogno di palchi e telecamere per esserci.

Eppure c’era una Calabria assente, che fa ancora molta fatica a stare insieme, assenza lieve ma che ferisce. E mi chiedo cosa stiamo facendo per cercare quel “di più” che questa terra ci chiede, per rispondere alle tante urla che non riusciamo a sentire, per essere compagne di viaggio di donne che scelgono di opporsi ai sistemi di violenza. Tante sono le donne di cui si parla negli ultimi anni: testimoni di giustizia accomunate dall’esperienza dell’isolamento, della solitudine, della violenza, troppo spesso della morte.
E dove siamo? Dove sono io? Sono dietro il racconto, dietro i libri, ma mai accanto. Vorrei che la memoria diventasse, in primo luogo per me, impegno, e che diventasse un impegno vero, accanto alle persone, con le donne. Memoria prima e non dopo, memoria che si trasforma nel metterci la faccia, nel relazionarsi alle tematiche della violenza e della violenza di genere come atto di impegno per la libertà e la dignità. Perché la storia di Lea è storia di violenza delle organizzazioni criminali, di quella signoria territoriale che controlla la vita, i sogni, i corpi. Ma è anche storia di una violenza di prossimità vissuta quotidianamente, fatta di parole, di schiaffi, di annullamento. Abbiamo accompagnato Lea fino alla porta del palazzo. E là ci siamo ritrovati, riconosciuti in quel grande “noi” che è Libera. Ci siamo stretti in abbracci, consapevoli che quello che avevamo vissuto era ormai parte di quel noi e del nostro impegno; ci siamo sorrisi, perché da qui si riparte.

Quella speranza si è trasformata nel pomeriggio in esperienza. Non è stato facile trovare il giardino in via Montello. Uno spazio riconquistato, liberato da coloro che là avevano fatto il luogo dello spaccio e della creazione del disagio, trasformato grazie al lavoro instancabile dei volontari. I colori delle bandiere che segnavano il perimetro su mura di mattoni rossi, il vino di Libera Terra, la musica. Le parole di Nando dalla Chiesa che ci ricordano quanto sia possibile impedire il radicamento delle mafie, i bulbi da piantare, la mostra con le foto di studentesse e studenti che raccontano la loro nave della legalità, la fila interminabile di giovani per depositare un fiore sotto la targa col nome di Lea. Uno spazio che diventa tempo e spazio per costruire alternativa, per costruire libertà e mettere al centro la creatività come strumento di resistenza. Mi sono emozionata passeggiando in quel giardino, perché, improvvisamente, ho ritrovato il senso.

Quello di togliere via le erbacce, di riempire di colore e musica quelli che prima erano spazi di morte. Di piantare nuovi semi in una terra da arare, una terra anche da amare. Nell’entusiasmo dei giovani milanesi ho visto la passione di chi ci crede, come i tanti giovani che anche in Calabria scelgono ogni giorno da che parte stare. Ed allora penso ai quasi 120 volontari che a Scalea accompagneranno i ragazzi più piccoli nella propria formazione, penso alle parole di Paola, di Doriana e di Francesca che mi hanno accompagnato alla partenza, penso alle donne che ogni giorno lottano per la propria dignità e per quella dei propri figli. Penso a papà Franco e mamma Matilde, che hanno trasformato lo stupro e la morte di Roberta in accoglienza per le donne in difficoltà. Penso allo studio ed alla ricerca come strumento per continuare a cercare domande, penso ai giovani delle cooperative sui beni confiscati che in Calabria sfidano mafie e connivenze. Penso alla musica, al teatro, alla cultura come strumento di emancipazione di una società, penso alla vita dei testimoni di giustizia ed alle ingiustizie che stanno affrontando. Penso ai familiari delle vittime innocenti che trasformano il loro dolore in strumento di dignità pubblica, in impegno.

Ti ho salutato Lea, chiedendoti perdono, ma lasciandoci con la promessa di un impegno che si fonda sulla speranza della possibilità. Un possibilità vera, perché grazie anche a te, abbiamo scoperto quanto sia importante tenere sempre presente la differenza tra ciò che è, e ciò che potrebbe essere. Perché giovanissima hai fatto una scelta di libertà. A Denise, la promessa di stare e fare in Calabria, perché un giorno possa essere orgogliosa delle sue radici. Denise per noi giovani donne, sei un esempio di coraggio, di quella intelligenza emotiva che diventa domanda politica e che ha al centro la parola dignità, e libertà. Noi ci siamo. Grazie Lea, perché ci ricordi che essere donne in Calabria significa avere il coraggio e la forza di lottare per la libertà, sapendo che “fra un’ora forse piangerai, poi la tua mano nasconderà un sorriso: gioia e dolore hanno il confine incerto nella stagione che illumina il viso”.

Tratto da: liberainformazione.org

In foto: un’opera di Simona Canino, ritratto di Lea Garofalo.

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