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scarpinato-c-g-barbagallo-2013VIDEO INTEGRALE DEL CONVEGNO!
di Roberto Scarpinato - 22 luglio 2013

Forse sapete che quando intervengo in pubblico salto sempre la parte dei ringraziamenti agli organizzatori delle serate, perché mi sembra un cerimoniale superfluo. Tuttavia, questa sera voglio fare un’eccezione perché è tempo di ringraziamenti non rituali e desidero, quindi, ringraziare la redazione di Antimafia Duemila perché, dalla data della fondazione della rivista, questo gruppo di volontari dell’informazione democratica ha svolto un ruolo prezioso di resistenza civile, di controffensiva culturale di cui credo che anche questa serata sia una testimonianza.
Anno dopo anno, le serate di dibattito organizzate da Antimafia Duemila, in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio, sono divenute uno dei pochi spazi culturali dove è ancora possibile discutere con spirito critico e antiretorico nodi problematici e temi scottanti che vengono, invece, prudentemente banditi in altre sedi culturali, nelle quali ci si limita a celebrare l’eroismo dei caduti.
Ho utilizzato, a ragion veduta, termini come “resistenza civile” e “controffensiva culturale” che sono propri del linguaggio bellico, perché l’informazione e il sapere sociale sulla mafia sono sempre stati al centro sin dall’origine, di una vera e propria guerra culturale che ha visto scendere pesantemente in campo ampi settori del potere, prima per negare l’esistenza della mafia, poi per offrirne la visione falsa e riduttiva. E mi fa riflettere (credo che sia un sintomo preoccupante di come questa guerra culturale sia ancora in pieno svolgimento) dover constatare che ancora oggi l’informazione e il sapere sociale sulla mafia sono in larga misura mistificati o manipolati.

Nonostante in questo ventennio la celebrazione di decine e decine di processi, dal quello Andreotti sino al processo sulla trattativa, hanno messo definitivamente in luce - a mio parere – che, in questo Paese, la storia della mafia è stata in buona parte la storia stessa della lotta del potere e continua ad essere ammannita al grande pubblico la versione secondo cui il male di mafia sarebbe opera esclusiva di personaggi come Riina e Provenzano, con la complicità marginale e episodica di alcuni colletti bianchi, che vengono per lo più presentati come poche mele marce nel paniere delle mele buone.
Il nodo mafia – potere non solo è la causa della perpetuazione del sistema di potere mafioso, ma è stato il motore di tante stragi e di tanti delitti politici e continua così a restare un tema ritenuto scabroso, che viene escluso, tranne poche eccezioni, dai palinsesti televisivi, dalle trasmissioni di approfondimento, come se si trattasse di una storia scabrosa da tenere confinata nel recinto dei processi e da riservare a un pubblico adulto, mentre al popolo - considerato un eterno minorenne condannato alla minorità culturale - si raccontano storie semplici e comprensibili nelle quali solitari eroi, come Falcone e Borsellino, si scontrano con sanguinari criminali con il lieto fine della vittoria dello Stato.
Alla mistificazione storica, praticata con i riduzionismi ai quali ho fatto cenno, si aggiunge poi la rimozione praticata dalla retorica ufficiale, quella delle cerimonie, delle commemorazioni pubbliche, in occasione delle quali vengono eliminati dal discorso pubblico tutti i possibili riferimenti alle vicende che, in qualche modo, dimostrano il coinvolgimento del potere nelle vicende di mafia.  
Per fare un paragone, la censura nel discorso pubblico del coinvolgimento dei settori del potere nella mafia è equivalente alla censura di chi si proponesse di riscrivere la storia dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, lasciando in campo soltanto i Bravi e cancellando o riducendo a ruolo marginale Don Rodrigo, che invece è la causa e il motore di tutta la storia.  
Ne risulta una storia mutilata, falsificata, una storia che non cammina, una storia che non sta in piedi. La manipolazione culturale alla quale ho accennato finisce, così, per realizzare una sorta di strisciante amnistia per amnesia collettiva dei crimini del potere; per spiegare come funziona questa amnistia per amnesia collettiva voglio fare un solo esempio tra i tanti possibili: ogni anno il 6 gennaio si commemora l’omicidio di Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Siciliana, assassinato nel 1980 perché aveva iniziato un’azione di moralizzazione della vita pubblica che aveva messo in crisi gli interessi mafiosi. Ebbene, in occasione di questa commemorazione, ogni anno, autorità e giornalisti, nei discorsi pubblici e negli articoli di stampa, si limitano a esecrare gli esecutori e i mandanti mafiosi dell’omicidio, ma tutti, quasi per tacita convenzione, tacciono sul fatto eclatante, accertato con sentenza definitiva, che alle riunioni nelle quali si discusse l’omicidio di Mattarella, insieme ai mafiosi assassini, prese parte Giulio Andreotti (personificazione stessa dello Stato), Salvo Lima, Nino e Ignazio Salvo, tra i massimi rappresentanti della classe dirigente isolana del tempo.  
Ecco, dunque, l’esemplificazione concreta di come un delitto politico, di come uno scabroso affare di famiglia interno alla classe dirigente, di come un capitolo della storia del potere, viene mistificato e derubricato nella storia collettiva a semplice omicidio imputabile ai soliti noti, brutti, sporchi e cattivi, rappresentati come unici portatori del male di mafia.  
Perché dunque meravigliarsi se da anni si tenta di chiudere definitivamente lo spinoso capitolo delle stragi del 1992 e del 1993,  raccontandolo come una storia tragica e semplice, ascrivibile esclusivamente allo scellerato delirio di onnipotenza di personaggi come Riina, come Graviano e loro sodali, che da soli avrebbero osato sfidare lo Stato? Uno Stato che si vorrebbe, ancora oggi, rappresentare come non compromesso in alcuna delle sue componenti, quindi compatto nell’azione di risposta alla mafia.  
Perché dunque meravigliarsi se da tanti viene vissuto con malcelato fastidio, con manifesta intolleranza, il lavoro di quei magistrati che, invece di attestarsi ai risultati ottenuti nei confronti degli uomini della mafia militare, hanno proseguito le loro indagini a trecentosessanta gradi, accertando così una serie di fatti che, nel loro sommarsi, non solo appaiono incompatibili con la storia semplice che ci vogliono raccontare, ma al contrario chiamano in causa esponenti del potere come occulti protagonisti, a vario titolo, di quella storia stragista?
Un potere che, sin qui, ha assunto le sembianze di pezzi di Stato artefici della sparizione dell’Agenda di Paolo Borsellino, che hanno inquinato e depistato le indagini sulla strage di via d’Amelio e artefici di rapporti segreti con i vertici della mafia all’insaputa della magistratura unica rimasta sul campo a difendere la credibilità dello Stato che altri calpestavano.
Un potere che ha assunto anche le sembianze di tanti uomini politici, di rappresentanti delle istituzioni, che per decenni hanno tenuto all’oscuro la magistratura, la collettività, di fatti e circostanze essenziali per la ricostruzione dei fatti, fatti e circostanze che sono venute alla luce soltanto dopo essere stati estratti con il forcipe delle indagini penali a riottosi custodi dei segreti del potere.
E tutto ciò forse è ancora il meno, solo la parte visibile di un iceberg sommerso, nelle cui profondità si celano altri e ben più terribili segreti che si annidano dietro le stragi. Quali segreti si celano, per esempio, dietro l’omicidio di Luigi Ilardo, l’uomo ai vertici della mafia a conoscenza dei rapporti della mafia con la massoneria deviata e con i servizi segreti? Assassinato pochi giorni prima che iniziasse a collaborare con la magistratura, quando aveva anticipato che avrebbe parlato di stragi e di omicidi che erano stati addossati alla mafia, ma che in realtà erano stati commessi da uomini dello Stato. E quali segreti si annidano dietro il suicidio di Antonino Gioè, altro personaggio a conoscenza dei segreti delle stragi e in contatto con uomini dei servizi segreti?  Suicidio (quello di Gioè ndr) avvenuto proprio quando, come ha dichiarato il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, Gioè stava accingendosi a collaborare con la magistratura. E quali erano i segreti indicibili di cui lo stesso Di Matteo era depositario e che la moglie gli scongiurò di non rivelare mai alla magistratura, come risulta da una intercettazione? E chi erano gli sconosciuti che, senza lasciare traccia, visitavano segretamente in carcere il capo mafia Nino Giuffrè quando  ancora la sua collaborazione era segretissima e lo istigavano al suicidio, lasciandogli un sacchetto di plastica con il quale soffocarsi?
Ed è un caso che Provenzano si sia mostrato con in testa un sacchetto di plastica? Si trattava di un gesto incontrollato o di una comunicazione gestuale cifrata? E l’elenco degli interrogatori inquietanti e dei quesiti irrisolti potrebbe continuare a lungo.  
Tutti gli avvenimenti del dopo stragi sembrano avere comunque un unico comune denominatore: l’esigenza costante, prioritaria, insopprimibile, di impedire che, comunque, possa emergere una verità che vada al di là di Riina e dei suoi sodali. Documenti fatti sparire, omicidi e suicidi di coloro che sapevano, bocche cucite di tutti gli altri, inquinamento delle prove. Si è fatto di tutto e di più perché alla fine restasse sul campo la storia semplice, elementare e rassicurante di cui dicevo all’inizio, una storia che sembra volerci dire che il male che ci ha colpito e che ha seminato terrore tra di noi è stato fuori di noi, non è mai stato tra di noi. I portatori del male, che hanno i volti trucidi di Riina e degli altri, sono stati processati e sono stati condannati. Il male è stato sconfitto e il bene ha trionfato. A questo punto il male, per alcuni, sembra piuttosto essere quello di continuare a cercare oltre, di insistere per andare oltre la maschera di Riina. Sembrerebbe che, per alcuni, oltre la verità processabile, che riguarda gli esecutori, vi sia una verità improcessabile che riguarda coloro che si nascondono dietro gli esecutori. Una verità non processabile oggi, come non è stata processabile ieri e l’altro ieri, in un Paese come l’Italia, la cui storia, sin dall’inizio della Repubblica, è stata prima martoriata da un eterno stragismo di segno politico, poi umiliata dall’impotenza della magistratura e delle stesse commissioni parlamentari, di fare luce sui moventi politici delle stragi.  
Quali segreti del potere si nascondono dietro le stragi? Quei segreti che Giovanni Falcone chiamava “il gioco grande”, quel gioco grande che Paolo Borsellino intuì o vide chiaramente poco prima di morire e dinanzi al quale misurò tutta la propria solitudine e la propria impotenza, preparandosi dunque a morire da uomo solo, quasi vittima sacrificale di un Paese troppo vile, troppo immaturo per saper guardare dentro la propria storia, per saper misurarsi con il proprio passato e proteggere così i suoi figli migliori salvando se stesso. Un uomo solo, un morituro che si vuole vittima soltanto di Riina, lui che invece sapeva di essere vittima della storia malata di questo Paese. Nelle parole che Paolo, prima di morire, affida nell’intimità alla moglie Agnese (“Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere. La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”) vi è tutta la solitudine impotente di chi sa, di chi sente di essere perdente dinanzi a un potere così grande  e così forte che nessuno potrà proteggerlo. Neppure quello Stato al quale Paolo aveva dedicato la propria vita. Neppure la gente che pure gli voleva bene e vedeva in lui l’ultimo baluardo dello Stato dopo la morte di Giovanni Falcone.  
Consapevole della propria impotenza, pochi giorni prima di morire, a Paolo non resterà altro che affidarsi a Dio; nel gesto di convocare al Palazzo di Giustizia un sacerdote suo amico per confessarsi vi è qualcosa che travalica la dimensione della giustizia e che assomiglia al martirio cristiano. Come se di lì a poco egli, Paolo, come antichi martiri, dovesse entrare nella fossa dei leoni, dove sarebbe stato divorato sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi di un Paese impotente che attendeva la sua morte, sotto gli occhi di uno Stato che lo lasciava morire solo e indifeso senza neppure mettere una zona rimozione sotto l’abitazione della madre per rendere più difficile il lavoro dei carnefici.  
Nell’agosto dell’anno scorso, dopo che il Consiglio Superiore della Magistratura aveva iniziato un procedimento per il mio trasferimento, a seguito della lettera a Paolo che avete sentito questa sera, ho incontrato Agnese Borsellino. Mi ha confidato alcune cose che terrò per me, ma ad un certo punto, tra le lacrime, ha esclamato: “Non so se è stato peggio quello che abbiamo vissuto prima della strage, quando temevamo ogni giorno che Paolo potesse essere ucciso, o quello che siamo stati costretti a vivere dopo la strage” e in quell’accennare “al dopo” i suoi occhi si sono riempiti di lacrime e la sua mano ha cominciato ad agitarsi  nell’aria, come ad accennare ad una verità terribile di cui era stata costretta progressivamente a rendersi conto e che l’aveva addolorata ancora di più della perdita di Paolo. Quella stessa verità terribile che Paolo aveva visto e che aveva cancellato negli ultimi mesi della sua vita, quel sorriso scanzonato che l’aveva accompagnato sino a qualche tempo prima.  
È stato in quel momento che, tenendo tra le mie mani quelle di Agnese, ho rinnovato a me stesso la stessa promessa che feci a Paolo quando, la sera del 19 luglio del 1992, mi inchinai dinanzi al suo corpo carbonizzato: “Costi quel che costi, Paolo, non ci fermeremo e prima o poi riusciremo a strappare la maschera al volto degli assassini”.

Intervento del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, al convegno “Paolo Borsellino: la mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerlo”

Foto © Giorgio Barbagallo

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