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tranfaglia-nicola-web10di Nicola Tranfaglia - 18 aprile 2013
Ci sono due constatazioni urgenti da fare il giorno in cui le Camere si riuniscono, a cinquanta giorni dalle elezioni del 24-25 febbraio 2013, ed è il caso di farle subito a scanso di equivoci.
Il partito democratico, che è quello che ha avuto maggiori suffragi nelle ultime votazioni, aveva senza dubbio il peso e l'onere di indicare un candidato sul quale far convergere il consenso dei suoi possibili alleati, come dei suoi avversari non in grado di dire di no.
E aveva, dopo la campagna elettorale che si è sviluppata sui mezzi di comunicazione cartacei e sul web, il peso di scegliere una figura di riferimento già provata e in grado di chiamare a raccolta quelli e quelle che da quindici anni hanno seguito la via del rinnovamento democratico attraverso l'Ulivo.

Se si fosse presa questa decisione da parte del gruppo dirigente del partito democratico, il candidato ideale sarebbe stato Romano Prodi. Padre dell'Ulivo, l'unico ad aver sconfitto democraticamente per due volte il capo del populismo italiano per tre volte presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ed uomo che, a livello internazionale, è in grado di dialogare con i maggiori capi dei governi di Oriente e Occidente, avendo guidato la commissione dell'Unione Europea e svolgendo la sua attività di insegnamento in Cina e quella politico-culturale in Africa, su invito delle Nazioni Unite.
Il partito democratico aveva un'altra possibilità se avesse voluto, invece, seguire la logica - invocata anzitutto dai mass media ma in parte anche dagli elettori che non l'hanno più votato, scegliendo il movimento di Beppe Grillo - di un personaggio solo in parte espressione del ceto politico e, per molti aspetti, espressione del pensiero democratico che ha in Italia una grande tradizione e ha dato al paese uomini come Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi.
In questo caso - come ha ricordato Rosy Bindi, ma anche un esponente più giovane del partito come Civati - la candidatura scelta alla fine dal movimento Cinque Stelle dopo la rinuncia di Gino Strada e di Milena Gabanelli - ottime persone ma del tutto al di fuori della politica, almeno come di solito si intende nel nostro Paese - la candidatura di Stefano Rodotà risponde a tutte le esigenze di questo genere.
Rodotà è un notevole giurista e un ottimo democratico, come posso dire io che lo conosco da una vita, ma anche amici come Salvatore Settis, ex direttore della Scuola Normale di Pisa, o Barbara Spinelli, tra i migliori giornalisti tra quelli che abbiamo occasione di seguire.
Ma di fronte a queste due possibilità ambedue rispondenti ai problemi del momento, la prima per l'esperienza politica e la dirittura morale di Romano Prodi, la seconda per le qualità intellettuali di Stefano Rodotà, il Partito democratico - o meglio il gruppo dirigente che fa capo all'attuale segretario e che, a quanto pare, non vuole rompere i rapporti con Silvio Berlusconi e il Popolo della Libertà - ha escluso l'una e l'altra possibilità ed ha scelto Franco Marini, espressione del vecchio e del nuovo partito cattolico di governo, e soprattutto gradito e votabile dal cavaliere di Arcore.  
Le conseguenze di una simile manovra - maturata nella solita riunione segreta da parte del gruppo dirigente dei democratici - saranno tragiche, con ogni probabilità, per il centro-sinistra. Gli elettori del Pd, come i tanti "cani sciolti" presenti nella nostra grande area di riferimento, saranno insieme delusi e disorientati da una scelta non solo chiusa all'interno del vecchio ceto politico, ma nello stesso tempo attestata sulla frontiera più arretrata e conservatrice possibile.

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