Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

caselli-gian-carlo-web2di Gian Carlo Caselli - 24 marzo 2013
Nell’esercizio dell’azione disciplinare, i margini di discrezionalità sono di fatto assai ampi, anche dopo l’intervenuta tipizzazione degli illeciti. Va da sé, pertanto, che si tratta di materia molto spesso opinabile, con la conseguente necessità di procedere con cautela sia nel governo dello strumento disciplinare, sia nel giudicarne le concrete manifestazioni. Ma pur con ogni doverosa cautela, nel caso dei magistrati palermitani Nino Di Matteo e Francesco Messineo è piuttosto difficile respingere la tentazione di citare Franz Kafka. Il procuratore generale della Corte di cassazione ha avviato contro di loro l’azione disciplinare: nel primo caso per aver il pm ammesso, seppure non espressamente, l’esistenza di intercettazioni relative a telefonate intercorse fra un ex ministro e il Capo dello Stato; nel secondo caso (trattandosi di un capoufficio) per non aver segnalato la violazione commessa dal sostituto. Beh, sembra appunto riproporsi il problema kafkiano dell’incomunicabile solitudine della creatura umana, prigioniera in un mondo che le riesce incomprensibile per i suoi caratteri un po’ magici e un po’ allucinati. Il problema di una giustizia misteriosa che tende a considerarti sempre colpevole.

PERCHÉ l’ammissione, seppur non espressa, riguarda la semplice esistenza delle conversazioni, non il loro contenuto, sul quale anzi la Procura di Palermo ha saputo sempre mantenere il segreto più assoluto. L’addebito, inoltre, proprio perché colpisce un’ammissione “non espressa”, sembra evocare l’inconscio dell’uomo e le sue manifestazioni come il grado più profondo e vero della realtà. L’addebito, infatti, viene intrecciato con la lesione del diritto alla riservatezza del Capo dello Stato, lesione che in questo modo finisce per essere sottratta al controllo razionale – e consegnata all’inconscio – per il semplice fatto che essa è diventata logicamente configurabile soltanto molto tempo dopo che vi era stata “l’ammissione non espressa”: posto che per tale configurabilità c’è voluta (a seguito del conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo sollevato dal Quirinale) una tormentata sentenza della Corte costituzionale che ha adottato, superando discussioni e polemiche, una interpretazione basata sulla risistemazione di vari pezzi del quadro normativo complessivo. Quanto a Messineo, nella prospettazione dell’accusa disciplinare egli si sarebbe reso colpevole di insufficiente sorveglianza sul suo sostituto, avendo omesso di denunziarne l’illecita “ammissione non espressa”. Ma per ravvisare l’illecito occorre procedere, come abbiamo ora visto, a un’acrobatica operazione di slalom fra inconscio e livello razionale, resa particolarmente impervia (se non impossibile) dal dato incontestabile dello scarto di tempo che intercorre fra l’ammissione e la successiva pronunzia della Consulta, prima della quale la configurabilità di una lesione del diritto alla riservatezza del Capo dello Stato non era un dogma, ma anzi era contestata anche da fonti autorevoli.    In ogni caso, anche a tutto concedere, a me sembra che lo zelo con cui la Procura generale della Cassazione ha esercitato l’azione disciplinare contro i due magistrati palermitani non si faccia carico in misura adeguata dell’evoluzione profonda che da tempo hanno subito e continuano a subire i caratteri della giurisdizione, con conseguente mutazione dei modelli deontologici. Sempre più spesso il processo è variamente interpretato sugli organi di informazione, con massicci interventi di soggetti che sono portatori di specifici interessi. Le imprecisioni e persino le fantasie non sono infrequenti. Spesso si impone la necessità di un riequilibrio delle posizioni. E ciò può comportare, in svariati casi, il dovere da parte del magistrato di fornire precisazioni e chiarimenti, anche a protezione dei soggetti interessati, specie se si tratta di materie di eccezionale interesse pubblico. Non tenerne conto significa rischiare di richiamarsi – per pigrizia o per la difficoltà di percorrere strade nuove – a realtà che non esistono più.

INFINE
, volendo essere ottimisti a ogni costo, quel che sta accadendo a Nino Di Matteo e Francesco Messineo, sebbene un po’ kafkiano, potrebbe servire a chiarire un po’ le idee a quanti si appassionano al dibattito politico – negli ultimi tempi sempre più acceso – sulla responsabilità dei magistrati : nel senso che d’ora in poi sarà più difficile trascurare (come invece di solito avviene) l’esistenza nel sistema istituzionale di una responsabilità disciplinare che funziona. Magari persinotroppo.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano