Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

ciotti-luigi-web2di Maria Cristina Carratù e Fulvio Paloscia - 12 marzo 2013
Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, ospite ieri di Repubblica, ha risposto alle domande dei giornalisti della redazione sulla 18° Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo della vittime delle mafie, che si terrà a Firenze il 16 marzo (vedi box nell’altra pagina), e su alcuni temi caldi della vita del paese.

La vostra iniziativa si chiama Giornata della memoria e dell’impegno, con un accento messo sul fare, più che soltanto sul dovere del ricordo. In concreto questo cosa significa?
«Che commuoversi non basta più, ma bisogna muoversi. E che la memoria che parla, racconta, porta a distinguere il giusto dall’ingiusto, a capire ciò che serve, costringe a mobilitarsi e a farlo tutti insieme. Perché il vero cambiamento ha bisogno di ciascuno di noi in prima persona, di fatti concreti, e della coesione dell’intero Paese».

Parlare di mafia non solo al sud, ma in giro per l’Italia, vuol dire, insomma, vederlo come un ‘caso’ per ogni italiano, in qualunque angolo viva.
«Libera è nata nel ’95 nel clima di indignazione seguito alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, e dal bisogno urgente di reagire attraverso un percorso culturale, educativo, di conoscenza, di impegno civile, l’unico in grado di garantire lo stato di salute di una democrazia. Così, nel ’96 siamo riusciti a raccogliere 1 milione di firme a sostegno della legge sulla confisca dei beni della mafia e il loro uso sociale, per cui si era battuto ed era morto Pio La Torre, e che prima di essere approvata ha trovato mille ostacoli in parlamento. Abbiamo conosciuto la fatica di andare a bussare alla porta dei capigruppo, uno per uno, di lottare con i tempi di lavori parlamentari, il patema dell’approvazione».

La legge è poi arrivata.
«In extremis. E oggi sappiamo quanto sia faticoso farla funzionare, arrivare alle confische, restituire terre e beni immobili alla collettività, garantire la loro rinascita economica a vantaggio di tutti. Basti pensare che solo 35 delle oltre 1.600 aziende confiscate sono finora sopravvissute e in grado di camminare. Eppure sappiamo anche quanto sia importante in quei territori vedere i giovani al lavoro nei campi appartenuti a Riina e Provenzano, occupare le case e le ville che furono di boss autori di stragi, e i prodotti delle cooperative sociali come il vino Centopassi serviti al rinfresco del presidente Napolitano per la festa della Repubblica. Uno schiaffo alla mafia costato una raffica di attentati e distruzioni, che ci hanno toccato nel vivo. Ma ormai sappiamo che questa è l’unica strada da percorrere».

Il momento più forte della manifestazione di sabato sarà quando verrà letta a voce alta la lista di 900 nomi di vittime delle mafie, un elenco che fa già impressione, eppure incompleto.
«Ogni volta speriamo che le vittime che siamo costretti a piangere siamo le ultime, e invece dal ’92 a oggi se ne sono aggiunte molte altre, mentre ogni anno emergono dall’ombra almeno 10-15 famiglie chiuse nel loro dolore, che hanno visto lo Stato soltanto a ridosso delle loro vicende, poi più. Tutte queste persone, molte delle quali sfileranno a Firenze come il fratello di Giancarlo Siani, o la sorella di Manuela Loi, morta in via d’Amelio, o la figlia di Lollo Cortisano, ucciso dalla n’drangheta, in questi anni si sono conosciute, frequentate, ritrovando voce e dignità. E sabato sentiranno pronunciare alto e forte il nome dei loro cari. Non dimenticherò mai la mortificazione della madre di Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone morto anche lui nella strage di Capaci e i cui fratelli saranno con noi sabato, nel veder scomparire il nome di suo figlio dentro la generica definizione di ‘ragazzi della scorta’. Eppure, anche loro, come Falcone e Borsellino, e tutte le altre vittime innocenti, sono morti per la stessa ragione: la difesa della democrazia».

Ma perché è così difficile in Italia parlare di mafia?
«La mafia è un potere trasversale al Paese, che ha radici al sud, ma mette rami e fa frutti che si raccolgono al nord, dove ci sono il benessere, l’economia, gli investimenti, essenziali al riciclaggio del denaro sporco, e dalla cui infiltrazione nessuna regione d’Italia può dirsi al riparo, nemmeno la Toscana, dove è forte l’usura, una delle tante attività legate alla mafia, come, ovunque, il gioco d’azzardo, il traffico e lo spaccio di droga, i grandi interessi immobiliari, la corruzione della pubblica amministrazione. La lotta alle mafie, insomma, non è cosa da operatori solitari, le cose si possono cambiare solo facendo rete, parlando a nome di un ‘noi’ collettivo, senza confini territoriali e senza bandiere di partito, in cui la memoria si faccia prossimità fra persone in carne e ossa, perché la prima dimensione della giustizia è l’accoglienza, il rispetto, la vicinanza. E’ per questo che a Firenze arriveranno migliaia di persone da ogni angolo d’Italia, giovani, adulti, anziani, al seguito delle 1.600 organizzazioni nazionali di ogni colore, dall’Azione Cattolica ai sindacati confederali, dalla Fuci a Legambiente, dall’Agesci all’Arci, che fanno parte di Libera insieme a molte piccole associazioni locali, o mobilitati nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, dove di mafia si parla tutto l’anno. E in particolare ci saranno molti giovani delle carceri minorili».

Giovani che, molto spesso, fanno parte loro malgrado del tessuto sociale di cui si alimenta la mafia, anche loro vittime, in un certo senso.
«Sapete chi è che va a trovarli nelle carceri, ad aiutarli a crescere e a liberarsi dei condizionamenti del loro ambiente, a ritrovare una vita? I familiari delle vittime! E vedere gli uni e gli altri sfilare accanto per le strade di Firenze, vorrà dire assistere ad una delle pagine più alte della storia di questo Paese».

Voi ricordate come il vostro appuntamento sia ormai ‘rituale’, eppure ogni volta la Giornata di Libera viene vissuto come una forte provocazione civile, rivolto innanzitutto alla politica. In tempi di protesta diffusa e urlata, quale è il segno che volete lasciare?
«Denunciare e basta non basta più. E’ il momento di chiedere conto a noi stessi in prima persona, di quello che facciamo. Il problema non è solo chi fa il male, ma anche chi lascia che lo si faccia. Firenze, città del Rinascimento, è stata vittima anche lei della mafia con l’attentato ai Georgofili, e proprio in quanto capitale della cultura, come ora Napoli è stata sfregiata dal rogo della Città della scienza. Perché la cultura è presidio di democrazia, sveglia le coscienze, è strumento di responsabilità e libertà. Lo sapeva bene Antonino Caponnetto, ‘nonno Nino’ che ha girato l’Italia fino all’ultimo per dire che la mafia teme più le scuole che la giustizia. Ma al suo funerale non c’era un solo rappresentante dello Stato».

Evidente sottovalutazione della radice culturale della mafia.
«Sì, e a Firenze, sabato, ci saremo anche in memoria di Nino. Da qui partirà l’appello ad un Rinascimento nuovo, fatto dalle persone che hanno voglia di riappropriarsi dei loro diritti, e che dalla politica pretendono soluzioni e non parole. La lotta alla mafia non si può più fare con i proclami, ma con il sostegno alle famiglie, i servizi ai territori, le politiche per il lavoro, la lotta contro il gioco d’azzardo, la legge contro la corruzione, l’accoglienza dei profughi del nord Africa per non farne manodopera della criminalità, la prevenzione dei reati, anziché la rincorsa, che costa molto di più. In una parola, con una politica che al più presto rimettere al centro le persone, la loro dignità, rendendo loro giustizia».

Insieme a Michele Serra, Roberto Saviano, Roberto Benigni e altri, lei ha firmato l’appello «Facciamolo!», rivolto a Pd e 5 Stelle perché trovino un accordo di «governo di alto profilo». Eppure Libera è sempre stata contraria alle «sirene del populismo».
«Non chiamerei populisti i 5 Stelle, che hanno dato una scossa al Paese ponendo domande ineludibili a tutta la politica. Conosco molti di questi ragazzi, portatori di una voglia di cambiamento e di una rabbia sana, quella che si prova per ciò che si ama. In parlamento sono entrati finalmente volti di giovani, intelligenti e appassionati, che ora vanno ascoltati e fatti lavorare».

Sì, ma con che governo?
«Non sta a noi dirlo, ma di sicuro tutto ciò va raccolto per ridare speranza al Paese. L’appello non servirà a niente, ma almeno è un tentativo di chiamare in causa tutti, nessuno escluso, ad una responsabilità diretta, ad una politica alta, chiara, trasparente, vicina alle storie delle persone. L’unico modo per salvare l’Italia. Mai lasciare che una crisi si trascini dietro anche la crisi della speranza. Il nostro è un graffio sulla coscienza di tutti, un invito a non perderci, per non dover un giorno batterci il petto, e a fare scelte anche scomode, a trasformare i tanti ‘no’ che diciamo, in tanti ‘noi’».

Lei è un prete, e il mondo cattolico, in questo momento, non solo perché si apre un Conclave, è chiamato ad una stagione di scelte cruciali, spirituali e culturali, e in un certo senso anche politiche. Quali, secondo lei?
«Ogni cristiano ha una duplice responsabilità: cristiana, appunto, e civile. Non può accontentarsi di affermare un ideale, deve entrare nella storia. E sapere che ovunque è a rischio la dignità, lì viene sacrificato il principio di libertà dell’uomo. La Chiesa deve avviare un processo di purificazione e rinnovamento, diventare più povera, più sobria, meno burocratica, più essenziale, più libera. Parlare il linguaggio della vita delle persone, su sessualità, divorziati, bioetica, uso del denaro. E lo Ior deve passare alla banca Etica, subito».

E alla luce di tutto questo, chi vorrebbe che diventasse Papa?
«Il cardinale di Vienna, Christoph Schoenborn. Uomo profondo, pieno di umanità, coraggio, capacità di stare con la gente. Lui sì che sarebbe una bella svolta nella Chiesa».

Tratto da: firenze.repubblica.it