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ingroia-antonio-web10di Antonio Ingroia - 11 dicembre 2012
Quel che è ovvio in Guatemala fa scandalo in Italia. Nel mio lavoro qui cerco di portare il meglio della nostra esperienza giudiziaria. Autonomia e indipendenza della magistratura di ogni ordine e grado, separazione dei poteri, metodo dei pool investigativi fondato su specializzazione e circolazione delle informazioni.

Questo dna della magistratura italiana cerco di portarlo nel quotidiano di questa task force internazionale impegnata nella lotta contro le mafie e le caste dell'impunità, ma anche di trasferirlo nella magistratura locale con cui vengo in contatto in vari incontri. Ma capita anche di commentare gli echi dei fatti che occupano le prime pagine dei quotidiani italiani. Inevitabile che mi sia trovato a spiegare la vicenda del conflitto d'attribuzione Quirinale-Procura di Palermo. Parlandone con un alto magistrato latino-americano gli ho chiesto di indovinare a chi ha dato ragione la Consulta. E lui, con un sorriso: “La Corte non avrà scelta, qualunque siano le norme costituzionali e processuali”.
In Guatemala si dà per scontato quello che in Italia, almeno in apparenza, fa scandalo. E in effetti, ha scandalizzato la mia dichiarazione sul tenore del comunicato stampa della Consulta che sembra risentire delle ragioni più della politica che del diritto. Ma non c’è niente di sconvolgente: è nella natura delle cose che ciò possa accadere. Quel che mi pare soprattutto paradossale è che anche fra coloro che mi criticano per partito preso c'è chi si trova costretto a darmi ragione, forse senza neanche rendersene ben conto. Uno di questi, Michele Ainis, scopre che “ogni sentenza è politica”, perché “ogni giudice con le sue pronunzie partecipa al governo della polis” e la Consulta è “un organo a cavallo fra politica e diritto”. Esattamente quel che ho detto io. Perché dunque lo scandalo e le levate di scudi a difesa della Corte? Semmai, Ainis polemizzi con il vicepresidente del Csm Vietti che ha affermato che la Corte non emette mai sentenze politiche. E i vertici dell'Anm, secondo cui “attribuire alla decisione del massimo organo di garanzia costituzionale un significato politico è impossibile e del tutto fuori luogo”, se la prendano anche con Ainis che pure condivide la decisione della Corte. Non riesco a seguire Ainis, invece, quando, incoerente con le sue stesse premesse, mi attribuisce l'accusa alla Consulta di aver deciso “in base a una comune ragione di partito”, arguendo che io mi considero “un partito”. Ainis mi attribuisce espressioni mai usate né pensate, confondendo, contro le sue stesse premesse, “politico” con “partitico”. Così, se ci equivochiamo a vicenda intenzionalmente, altro che “ragionare a mente fredda”, come Ainis auspica: è Babele... Come mi pare fosse chiaro a chiunque volesse intendere il senso autentico delle mie parole, spesso mal interpretate per darmi addosso, volevo dire tutt'altra cosa. Lamentavo che, nell'equilibrio fra ragioni del diritto e della politica, che inevitabilmente coabitano in decisioni del genere come Ainis riconosce, le seconde siano state sopraffatte dalle prime, quando la Corte avrebbe potuto adottare diverse soluzioni “mediane” che meglio conciliassero le une con le altre.
Del resto, non va trascurato un altro aspetto di cui lo stesso Ainis si rende conto quando scrive che “nel diritto non esistono lacune”. Proprio per questo, in base alle ragioni del diritto, sembra davvero arduo non convenire, se non per partito preso, con la Procura di Palermo sul fatto che non c'era altro da fare che applicare la legge vigente. Come più volte rammentato – invano – dal più grande processualpenalista vivente, Franco Cordero: quelle conversazioni non potevano essere distrutte senza essere prima depositate alle parti. E perciò non vennero distrutte. Proprio per preservarne la riservatezza, che infatti abbiamo garantito. Non c'era null’altro da fare. E serve a poco che Ainis “immerga lo sguardo dentro la forza pervasiva dei principi costituzionali”. Il diritto è geometria, non poesia.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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