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ingroia-antonio-web8di Antonio Ingroia - 4 dicembre 2012
Al mio secondo mese in Guatemala, credo di aver capito una cosa già imparata in Sicilia. E cioè che nessun’azione di contrasto contro qualsiasi forma di potere mafioso può vincere senza il sostegno della società civile.

È una verità incontestabile di cui non vi è sufficiente consapevolezza, né in Italia, né altrove. Quando nel nostro Paese questa consapevolezza è penetrata nelle istituzioni, almeno in alcune, quanto meno in alcuni uomini delle istituzioni che vedevano la realtà meglio degli altri, e che non avevano paura di vedere quello che altri non volevano vedere, ebbene, proprio in quel momento, le cose che sembravano immutabili sono cambiate.
Così è successo con la mafia. Quando Falcone rievocava con nostalgia il momento in cui la gente “faceva il tifo” per i giudici, alla base della sua considerazione non vi era ovviamente la ricerca di sostegno popolare alle sue indagini. Non cercava sentenze di condanna a furor di popolo. Ma sapeva essere impossibile prescindere dalla società civile. Sapeva che senza il suo appoggio non ci sarebbe stato neanche il maxi-processo, il primo che aveva davvero intaccato l’atavico mito dell’impunità dei mafiosi. Perché il maxi-processo fu consentito dall'introduzione dell'art. 416 bis del codice pena-le, avvenuta nel 1982 sotto la spinta del movimento antimafia spontaneamente sorto e irrobustitosi sull'onda dell'emozione che si diffuse a seguito della terribile stagione di delitti culminata con l'omicidio del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

Ovvio che su questo crinale si gioca anche la delicata questione dei rapporti fra magistrato e comunicazione con la società, anche mediante l'uso dei mezzi di comunicazione di massa, giornali e Tv. Crinale sul quale bisogna evitare che la sollecitazione della società civile possa apparire la molla, l'obiettivo occulto dell'attività giudiziaria, invece che il suo necessario supporto. Il che dipende, in pari misura, dal senso di responsabilità e di misura del singolo magistrato nel governare l'esposizione mediatica dell'indagine, ma anche dal senso di responsabilità degli operatori dell’informazione a scongiurare enfatizzazioni gridate e gratuite. In ogni caso rimane la considerazione di partenza. Senza la società civile non si può vincere nessuna battaglia contro i poteri criminali. L'esperienza di Paesi come il Guatemala e il Messico ne è una riprova, laddove si è dimostrato come la mera e brutale repressione, magari affidata all'esercito, non ottiene risultati accettabili. Anzi, risulta controproducente, soprattutto perché certe, conseguenti, violazioni dei diritti umani determinano l'ampliarsi e l’irrobustirsi della rete di complicità di cui godono i narcotrafficanti.

Che fare allora per sollecitare l'appoggio della società civile? Bisogna meritarselo. E per meritarselo occorrono innanzitutto comportamenti virtuosi. Proprio l'assenza di comportamenti virtuosi ha creato la dilagante crisi di fiducia nelle istituzioni che in Guatemala ha indotto l’Onu a costituire un organismo ad hoc per sostenere la giustizia locale anche attraverso una costante relazione con la società civile. Così come è l'assenza di questi comportamenti virtuosi in Italia, anzi il susseguirsi per accumulazione di comportamenti sempre più immorali e illeciti del ceto politico del nostro Paese, ad avere determinato quella progressiva disaffezione di così tanti italiani nei confronti della politica, che ammala la nostra democrazia. Il che dimostra che il Paese non ha bisogno di antipolitica, ma di buona politica, che però paradossalmente non può venire dalla politica odierna, di partiti ancora in crisi. Può venire soprattutto dalle energie migliori della società civile che quei comportamenti virtuosi ha prodotto in questi anni sul terreno della legalità, della trasparenza e dei diritti. Occorre un'assunzione di responsabilità da parte di quella società civile. Una società civile che sappia cambiare, rivoluzionare il mondo asfittico della politica italiana.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano