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ingroia-antonio-web8di Antonio Ingroia - 1° luglio 2012
Quale deve essere oggi la priorità delle priorità nell’agenda politica nazionale? Domanda diretta che impone risposta altrettanto secca. Una risposta, a prima vista, perfino facile. Tutti direbbero, senza esitazione, che la priorità è la crisi economica. Una crisi che impedisce la crescita del nostro Paese, che sta mettendo a rischio l’euro e la stessa idea di Europa, e che avvilisce la quotidianità degli italiani.

Non è un caso che la politica abbia fatto un passo indietro per cederlo a un governo di tecnici, qualificatissimi proprio per fronteggiare l’emergenza e rilanciare l’economia nazionale. E la Giustizia?
Dove collochiamo la Giustizia nella scala gerarchica delle priorità? L’impressione è che la comune opinione la faccia scivolare se non nel fondo, quanto meno a metà classifica. Un errore gravissimo che pagheremmo salato aggravando la stessa crisi economica.
Mi spiego. L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei Diritti umani per l’ingiustizia dei tempi della sua giustizia. Troppo lunga la durata del processo, sia penale che civile. E pensate che sia indifferente per gli operatori economici sapere di non potere contare sull’efficienza di un sistema di soluzione del contenzioso civile e di un processo penale che li protegga dalle mafie e dalla pressione corruttiva di ogni sorta? Certo che no. Se chi deve investire sa di non poter contare su un’adeguata tutela giudiziaria per le vittime di reati e soprusi, indirizza i propri capitali altrove. E addio speranze di crescita…
Del resto, veniamo da una stagione, quella del berlusconismo delle leggi ad personam, anzi dovremmo dire ad classem, che ha creato ampie sacche di impunità, grazie al combinarsi dei vari ostacoli frapposti all’azione giudiziaria. Ostacoli che si sono risolti nell’allungamento a dismisura dei tempi del processo e nella cultura dell’impunità e dell’elusione della legge ben oltre il limite della decenza. Il che ha mortificato sempre di più l’immagine del nostro Paese agli occhi degli stranieri, investitori compresi, e delle nostre istituzioni agli occhi dei propri cittadini, dando luogo ad una sempre più allarmante disaffezione nei confronti dello Stato e della politica. Ed allora, se si vuole arrestare la deriva del Paese, occorre dare una sterzata alla politica della giustizia in Italia. Recuperare il terreno perduto, azzerare le nefandezze del passato per costruire un’Italia più giusta. Serve un nuovo «Piano per la Giustizia», iniziando a capovolgere le priorità. Alla priorità dell’impunità dei potenti che ha costituito il nocciolo della politica del diritto nel ventennio berlusconiano, contro la magistratura e la Giustizia, va contrapposta una priorità di supporto alla magistratura anziché di ostacolo, che venga incontro alle esigenze di giustizia dei cittadini. Una giustizia efficiente nelle garanzie, che dia risposte in tempi ragionevoli.
Occorre, insomma, una grande riforma della giustizia, articolata su alcuni punti forti. Innanzitutto un’urgente revisione dei tempi della giustizia, anche attraverso interventi drastici. Riforma della prescrizione, una «prescrizione lunga» il cui decorso inizi solo dal momento in cui viene scoperto il delitto e si interrompa con l’apertura del processo, dimostrativa della volontà statale di perseguire il (presunto) colpevole. Riforma delle impugnazioni, che possa contemplare l’abolizione dell’appello, e incentivazione dei riti alternativi che preveda l’esito dibattimentale come extrema ratio. Ma anche riduzione del contenzioso penale attraverso una robusta depenalizzazione dei reati minori, restituendo efficienza deterrente alle sanzioni amministrative alternative allo strumento penale. Il tutto, se accompagnato ad una razionale revisione delle circoscrizioni giudiziarie, senza remore nell’abolire sedi giudiziarie inutili, consentirebbe anche di recuperare personale per una più razionale politica delle risorse. E, a proposito di risorse, potenziamento degli strumenti di recupero del maltolto alla comunità da parte del mondo del crimine tutto, delle organizzazioni mafiose, ma anche della corruzione, e destinazione del confiscato, almeno in parte, allo stesso pianeta giustizia.
Riforma del diritto penale cominciando dalla riforma della normativa anticorruzione, ed il recente ddl in materia può essere solo un primo passo. Ma anche adeguamento della legislazione antiriciclaggio e del diritto penale economico per contrastare ogni forma di finanza criminale, delle mafie e dei colletti bianchi, a cominciare dal ripristino dell’incriminazione per falso in bilancio fino alla introduzione del reato di autoriciclaggio, così colmando una lacuna che agevola i riciclatori di professione delle grandi organizzazioni criminali. Riforma del codice antimafia per dargli reale efficacia anche su settori del tutto scoperti, ad esempio introducendo un efficiente reato di scambio elettorale politico-mafioso che sanzioni il patto politico-mafioso, oggi di fatto impunito.
La riforma della disciplina degli strumenti di investigazione deve indirizzarsi verso il suo potenziamento e non certo verso la neutralizzazione dei poteri della magistratura e delle polizia giudiziaria. A partire dai collaboratori di giustizia, fenomeno pressoché estinto perché vittima di una legge che, introdotta nel 2001, ha disincentivato la collaborazione, dove bisogna invece avviare un’inversione di tendenza per affrontare la nuova emergenza costituita dalla mafia politico-finanziaria. E scongiurare il pericolo all’orizzonte di rivitalizzare il progetto di legge-bavaglio sulle intercettazioni, magari strumentalizzando le polemiche sorte intorno alle legittime e doverose intercettazioni disposte in alcuni procedimenti in corso, come quello sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia», quando si è sostenuta la inopportunità» delle intercettazioni stesse, criterio di opportunità che però non può e non deve entrare nelle valutazioni giudiziarie. Inopportune semmai sono certe polemiche da parte di chi dimostra di conoscere poco gli atti d’indagine, benché ormai a disposizione di molti a seguito del deposito delle carte, quando si tratta, come in questo caso, di intercettazioni dimostratesi rilevanti rispetto al procedimento in corso perché contenenti risultanze illustrative di aspetti non secondari della vicenda oggetto dell’indagine. Ciò che più conta, anche per evitare esercizi di dietrologia, diventa allora non dare l’impressione di voler enfatizzare le polemiche per legittimare la rivitalizzazione di quell’ormai antico minacciato intervento legislativo sulle intercettazioni, equivalente ad un colpo di spugna della residua efficienza dell’azione di magistratura e forze di polizia contro ogni forma di criminalità occulta.

Tratto da: L’Unità

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