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strage-piazza-della-loggia-bigdi Giovanni Bianconi - 4 aprile 2012
Quello che va in scena a Brescia non è un romanzo, è un processo. Ieri s'è celebrata l'ultima udienza del giudizio d'appello, a breve arriverà la sentenza. E comunque andrà sarà una conclusione controversa, che si trascinerà in Cassazione.

Si cercano brandelli di realtà per provare a costruire una verità giudiziaria a trentotto anni dai fatti, strage di piazza della Loggia 28 maggio 1974. Con quali difficoltà è facile intuire. È un processo indiziario, dunque gli elementi raccolti non sono di per sé decisivi: in primo grado una corte d'assise li ha ritenuti insufficienti, in secondo si vedrà.
Otto morti e oltre cento feriti non sono un romanzo, come non lo erano i diciassette cadaveri di piazza Fontana (diciotto con quello di Pinelli, «vittima collaterale» postuma). Ma spesso la realtà assomiglia ai romanzi. Soprattutto nelle indagini sulle stragi, e soprattutto quanto a depistaggi. A piazza Fontana, a piazza della Loggia, e non solo.
Le analogie di quel che è accaduto all'indomani della bomba di piazza della Loggia con ciò che s'è verificato dopo l'esplosione alla Banca dell'Agricoltura sono impressionanti. Per esempio le perquisizioni nelle case di attivisti di sinistra conosciuti, sospetto remake della pista anarchica confezionata subito dopo l'attentato di Milano. O la distruzione delle prove. Alla Banca commerciale, poco dopo l'esplosione di piazza Fontana, fu trovata una bomba integra che con ogni probabilità faceva parte dello stesso piano stragista: il perito, anziché salvaguardarla per analizzarla e ricavarne elementi utili alle indagini, la fece brillare. A Brescia, quattro anni e mezzo dopo, appena rimossi i corpi delle vittime un vicequestore diede ordine di ripulire la piazza con gli idranti, cancellando ogni possibilità di raccogliere frammenti che potevano servire a ricostruire l'accaduto. Poi, nel cuore della notte, arrivò un perito a esaminare i luoghi, lo stesso che aveva dato ordine di far esplodere l'ordigno della Commerciale.
E mentre questo era il livello di conduzione delle indagini tecniche — con i servizi segreti che anziché collaborare si mettevano di traverso, accuseranno i magistrati — Il secolo d'Italia, giornale del Movimento sociale italiano, ammoniva che «le trame nere sono rosse»; quasi un controcanto ai fogli dell'opposta sponda politica dove si sosteneva che le Brigate rosse erano nere. Qualcuno si spinse a sostenere di aver riconosciuto Renato Curcio, il fondatore delle Br, sul luogo della strage, sebbene dopo il fatto.
Ma poiché era difficile addossare la strage agli anarchici o alle formazioni clandestine dell'ultrasinistra, si prese un'altra strada: nel giro di pochi mesi fu offerto agli inquirenti il colpevole perfetto, l'estremista di tendenze neo-naziste Ermanno Buzzi, che poteva tranquillamente circoscrivere il progetto della strage alle sue tendenze dinamitarde. Venne arrestato, e su di lui si concentrarono dichiarazioni tanto precise e concordanti quanto traballanti, per via dell'instabilità di chi le rese a investigatori e inquirenti. Di lui parlarono presunti testimoni o complici che poi ritrattarono a intermittenza. Buzzi venne comunque condannato all'ergastolo in primo grado, ma in attesa dell'appello — dove avrebbe potuto fornire la sua versione dei fatti, tanto che negli ambienti neofascisti lo individuarono come un potenziale pericolo — fu inspiegabilmente trasferito nel carcere dove lo aspettavano due killer neofascisti di provata esperienza: Pierluigi Concutelli e Mario Tuti, che lo strangolarono alla prima occasione. Anche a causa di quell'omicidio più che annunciato, a trentotto anni dai fatti, ci ritroviamo in attesa di una sentenza d'appello che in ogni caso non scriverà la parola fine.
E a proposito di questo aspetto della vicenda bresciana, l'ultima indagine di Caltanissetta sulla strage di via D'Amelio (19 luglio 1992, uccisione del giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta) a vent'anni dai fatti ha svelato un retroscena simile e ugualmente allarmante. Anche lì, nell'immediatezza dei fatti o quasi, fu imboccata una pista mafiosa sulla base di testimonianze a dir poco equivoche: fornivano un quadro di colpevolezza tutto mafioso senza immaginare altre ragioni o eventuali complicità, che già si profilavano allora e trovano oggi ulteriori indizi. C'è voluto un nuovo pentito che s'è autoaccusato dando prova di aver confezionato l'autobomba per scoprire il depistaggio, e difficilmente si riuscirà ad arrivare oltre ipotesi e congetture. Come nelle stragi dei decenni precedenti.
Ci sono troppe cose che non tornano e molte che invece — in maniera inquietante — ritornano. Non è un romanzo, né un'artificiosa costruzione dietrologica. Sono pezzetti di realtà che aspettano spiegazioni, se mai ne arriveranno.

Tratto da: Il Corriere della Sera

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