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bocca-giorgio-webdi Giorgio Bocca - 11 novembre 2011
Hanno scelto colori e simboli della morte. Ma a loro gli scontri servono solo per "rialzare il tono della vita" come diceva Pavese. E se ci scappa il morto l'eccitazione aumenta. Mentre la polizia lascia fare.

Chi sono i black bloc e gli altri giovanotti che percorrono l'Europa in odio alla civiltà industriale ma svolgendo la funzione utilissima di consumare il surplus? Cerco di evitarli, perché alla mia età frequentare violenti essendo deboli non ha senso. Ma credo di aver capito la ragione della loro presenza e del loro successo, perché con i mezzi di cui dispongono le polizie si potrebbero anche levar di mezzo, e invece li si lascia fare quel che vogliono da Roma alla Val Susa.
Sono l'eterno bisogno degli uomini di giocare alla guerra, meglio se una guerra per finta, anche se ogni tanto ci scappa il morto che serve a tenere alta l'eccitazione cioè il divertimento. Pure io nella fanciullezza ho partecipato alle guerre per gioco, e ricordo con un po' di nostalgia la loro assoluta mancanza di ragion pratica e al tempo delle bande giovanili sulle ripide della Stura e del Gesso a Cuneo.
Noi della banda di Cuneo Nuova avevamo costruito le nostre capanne non lontano dalla stazione ferroviaria, fumavamo dei pezzi di radici con un buco, acide, avevamo spade e scudi di cartone. E un nemico, il terribile Pecollo, figlio di una prostituta carico di odio per il mondo soprattutto per noi, figli di borghesi. Un giorno me lo trovai di fronte in un campo. Era di pelle scura, tozzo, torvo. Lui fece due passi avanti d'improvviso mi colpì con un pugno in piena faccia. Poi fuggì verso il bosco. Ero caduto a terra, sanguinante gemevo ma avevo compiuto la mia iniziazione a quel gioco a cui gli uomini non resistono dove ogni tanto si muore.
Non è un caso se i black bloc hanno scelto colori e simboli di morte. La guerra, diceva Cesare Pavese, "rialza il tono della vita", il suo fascino è l'altra faccia della sua stupidità. In tutti i momenti di guerra vera, quando era finita la guerra infantile con le spade e gli scudi di cartone, mi sono chiesto perché lo facessi, perché fossi caduto anch'io nella sua seduzione.
Le SS tedesche sono arrivate a Cuneo, hanno incendiato Boves, noi dalla Val Grana corriamo in soccorso dei compagni, pura follia. Nell'abitato di Borgo San Dalmazzo, dove c'è il bivio per Boves, incontriamo un camion di tedeschi. Faccio quel che fanno gli altri, sparo un colpo di fucile e quasi cado giù dal camion ripartito di scatto, noi di qua i tedeschi verso la Val Gesso in una guerra che dovevo ancora conoscere, capire, ma lo ricorderò per tutta la vita come uno dei momenti più intensi.
I momenti della violenza, il pugno di Pecollo, lo scontro di Boves, sono le banalità di cui la guerra fa i ricordi indimenticabili della tua vita. Se li eviti, se manchi quell'esperienza, è mancato qualcosa di decisivo. La morte, il rischio mortale, rendono epici fatti più banali.
C'è un solo modo di far apparire inaccettabile la violenza: che sia a fin di bene, che venga esercitata solo per essere cancellata. Ma qui si apre il gioco senza fine delle illusioni, degli inganni, della malvagità compiuti in buona fede. Ci si illude anche di poter ricorrere come giudice finale alla ragione, ma ogni volta la ragione è sopraffatta dagli altri sentimenti e istinti vitali, i sette peccati capitali e i veniali da cui derivano.
Un biografo di Immanuel Kant ha scoperto che il padre della legge morale era un libertino e un gaudente e un corruttore.
Per consolidare una società civile non c'è che perseverare e perseverare nel rifiuto della violenza feroce, anche se piace alla scimmia assassina.
Si sarebbe tentati di usare come consolazione il fatto che le società umane sono sempre meno feroci e sempre più rispettose della legge, ma improvvisamente dittature come quella nazista o quella di Gheddafi ci riportano alla realtà: l'uomo è sempre disponibile alla ferocia insensata.

Tratto da: l'Espresso