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disoccupazione-webdi Giovanni Belardelli - 8 ottobre 2011
A ll'Italia spetta la «maglia nera nell'occupazione dei più giovani». La nostra previdenza si regge sul «sacrificio dei giovani». Il futuro dei giovani italiani è «in salita».

Queste sono solo alcune delle cose che la stampa italiana ha scritto di recente sulla condizione dei giovani, per solito a commento dei rapporti di questo o quel centro di ricerca (da ultimo, qualche giorno fa, il rapporto Svimez sulla situazione drammatica dell'occupazione giovanile nel Mezzogiorno). Ma nonostante i ripetuti gridi di allarme, nonostante i moniti autorevoli come quelli del presidente Napolitano o (ieri) del Governatore Draghi, delle nuove generazioni la politica sembra non volersi occupare, benché poche questioni appaiano altrettanto decisive per il futuro del Paese. La condizione di marginalità e sacrificio di chi oggi ha meno di trenta o quarant'anni altera infatti profondamente la fisiologia di una società, quel processo grazie al quale le generazioni più giovani progressivamente rimpiazzano le più anziane. Una possibilità, questa, che nel caso italiano è lo stesso andamento demografico a rendere sempre più difficile: siamo infatti un Paese che si colloca ai primissimi posti nel mondo sia per il tasso di denatalità sia per la crescente aspettativa di vita. Ma un'Italia sempre più popolata di anziani, e che per giunta offre alle nuove generazioni condizioni di lavoro e di vita dominate dall'incertezza, che continua a perdere molti dei suoi giovani più promettenti (perché disposti a rischiare e competere a livello internazionale) che scelgono di andare all'estero, non potrà che essere un Paese sempre meno dinamico, sempre meno capace di innovazione e creatività. Dei giovani, della necessità di promuoverne l'istruzione e le possibilità di lavoro, di migliorarne le prospettive di vita, la politica italiana non è che non parli. Ne parla continuamente, anzi, senza però che davvero il governo sia mai intervenuto in modo effettivo. I giovani sono insomma argomento di un tipo di retorica che nel nostro Paese ha sempre avuto molto spazio, dall'epoca della Giovine Italia di Mazzini (l'iscrizione alla quale era riservata a chi avesse meno di quarant'anni) al «largo ai giovani» di Mussolini, fino alle generazioni forever young (come suonava una canzone di Bob Dylan) degli anni 60 e 70. Abbiamo anche un ministero destinato alla Gioventù. Ma è l'agenda politica vera, quella dei fatti e delle decisioni che contano, che si mostra incapace di includerli. Perché i giovani votano, sì, ma — a causa dell'andamento demografico — sono e saranno sempre meno in grado di far pesare il loro voto. È anche per questo che trovano poco ascolto da parte di una classe politica miope, incapace di percepire l'interesse generale come oggetto e scopo del proprio operare.

Sarebbe ingenuo pretendere che, in Italia come altrove, un politico di professione segua in tutto e per tutto una concezione «alta» della politica, svincolata dal perseguimento di interessi immediati e settoriali. Ciò che fa la differenza è se però quel politico riesce a coniugare gli interessi e le domande particolari con una visione più ampia e generale, facendosi guidare — nelle parole di Max Weber — da «passione, senso di responsabilità, lungimiranza». Infatti, è solo una qualche idea di interesse generale che può indurre la politica ad agire guardando alle nuove generazioni, compiendo dunque scelte che possono non avvantaggiare la maggioranza degli elettori oggi, ma il Paese per come sarà in futuro.

Il difetto principale del nostro ceto politico, quello che gli impedisce di occuparsi davvero del presente e del futuro delle nuove generazioni, si lega appunto alla mancanza di una visione del genere, all'assenza — potremmo dire — di una certa idea dell'Italia, del nostro Paese come vorremmo che fosse quando noi non ci saremo più. Quest'idea la avevano, ciascuno a suo modo, Cavour e Giolitti, De Gasperi e (per quanto possa non piacerci) Togliatti. Sembra invece assente da una politica come quella odierna, che appare sempre più appannaggio di gruppi in competizione, il cui orizzonte troppo spesso non va oltre gli interessi settoriali, o semplicemente privati, degli appartenenti.

Tratto da:Corriere della Sera