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di Marco Travaglio
La scarcerazione alla spicciolata dei detenuti per corruzione, concussione e peculato (prima pochi, ora zero), grazie all’incredibile sentenza della Consulta sulla Spazzacorrotti, riporta indietro le lancette dell’orologio al 14 luglio 1994. La notte precedente, mentre gli italiani sono distratti dalla semifinale mondiale Italia-Bulgaria (2-1, doppietta di Baggio), il primo governo B. vara il decreto Biondi, che vieta la custodia cautelare per i reati di Tangentopoli e la mantiene per quelli di strada. È la prima di una lunga serie di leggi ad personam, fatta per salvare dalla galera i manager Fininvest che corrompevano la Guardia di Finanza e naturalmente i finanzieri corrotti, ma anche per mantenere con altre norme le promesse fatte a Cosa Nostra nella Trattativa. E quel mattino le Procure d’Italia sono impegnate a scarcerare centinaia di ladroni di Stato indagati nelle varie Tangentopoli e a revocare i nuovi mandati di cattura. Il procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli approfitta di una ricorrenza storica per una delle sue battute taglienti: “È singolare che, nell’anniversario della presa della Bastiglia, si aprano questi squarci nei muri di San Vittore e Opera. Il governo, invece di disporre misure idonee a impedire il perpetuarsi del sistema di corruzione, mostra la preoccupazione opposta. Evidentemente considera la magistratura troppo efficiente...”.

Nel giro di sette giorni vengono scarcerati a norma di decreto 2.764 detenuti, liberi di tornare a inquinare prove, minacciare testi, commettere nuovi reati o fuggire. In serata Antonio Di Pietro, attorniato dagli altri pm di Mani Pulite, legge un comunicato: “Il decreto non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti persone raggiunte da schiaccianti prove su gravi fatti di corruzione non potranno più essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere e a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, talora persino comprando gli uomini a cui avevamo affidato indagini nei loro confronti. Pertanto chiederemo al più presto l’assegnazione ad altro e diverso incarico, nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone”. Subito, a Milano e in altre città, migliaia di cittadini scendono in piazza per manifestare in difesa del Pool e contro il decreto, convocati da Società civile, cui si uniscono Pds, Rete, Rifondazione e Verdi. Ma in piazza ci sono anche molti leghisti e missini. L’indomani la Voce di Indro Montanelli chiama a raccolta il “popolo dei fax” per poi pubblicare migliaia di messaggi ricevuti.

La prima pagina de la Voce viene sventolata come una bandiera, insieme a quella di Repubblica, diretta da Eugenio Scalfari, contro il “Decreto Salvaladri”. Fini per An, Bossi e Maroni per la Lega si dissociano dal decreto a furor di popolo e minacciano la crisi se non sarà ritirato. E alla fine B. è costretto alla resa.

Oggi la situazione è ancor più grave. Intanto perché non s’indigna più nessuno. Ma perché il nuovo Salvaladri non riguarda la custodia cautelare (per “presunti non colpevoli”), ma l’espiazione della pena (per condannati definitivi). E non porta la firma di politici, ma della Corte costituzionale: che, dopo aver avallato per 28 anni la “retroattività” delle leggi che negavano pene alternative al carcere e benefici a mafiosi, terroristi, pedopornografi, stupratori, contrabbandieri e sequestratori, s’è svegliata all’improvviso per bocciarne l’estensione (per la Spazzacorrotti) a corruzione, concussione e peculato. O meglio: la Bonafede vale solo per chi ha avuto la sventura di delinquere dopo la sua entrata in vigore. Chi invece ha avuto l’accortezza di farlo prima sconta la condanna comodamente a casa o ai servizi sociali, purché la pena sia sotto i 4 anni (come per i politici condannati per Mondo di Mezzo) o la sua età sia sopra i 70 (come per Formigoni). E, se era finito dentro, può chiedere e persino ottenere il risarcimento dallo Stato per “ingiusta detenzione”: cioè per la “reclusione” che era, sì, scritta nel Codice penale e nella sentenza, ma si dava per scontato che fosse finta. Dalle motivazioni della Consulta capiremo se il carcere finto vale solo per corrotti, corruttori e peculatori o anche - come sarebbe doveroso - per tutte le altre categorie finora inserite dal Parlamento nell’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario: quello sul carcere “ostativo”, cioè vero, senza eccezioni, benefici, alternative e scappatoie. A partire dai mafiosi che nel ’92, in base all’applicazione “retroattiva” della nuova legge del 41-bis, furono deportati dalle carceri ordinarie a quelle speciali di Pianosa e Asinara e ivi sigillati gettando la chiave, anche se condannati per delitti commessi prima. Ora Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi di reclusione e mandato a casa dopo appena 5 mesi, anziché accendere un cero alla Madonna si lagna pure per i ben 150 giorni trascorsi in carcere sui 2029 previsti dalla sua sentenza: “Ho subìto alcuni mesi di ingiustificata detenzione”. Povera stella. Gli avevano spiegato che l’espressione “anni 5 e mesi 10 di reclusione” in calce alla sua sentenza era uno scherzo, nel Paese notoriamente più giustizialista del mondo. Poi, quando scoprì che era diventata una cosa seria, ci rimase male. Ora i suoi santi protettori della Consulta potrebbero mandarlo a spiegare alle centinaia di criminali finiti in carcere ostativo come mai, quando frignavano loro, nessuno se li filava, mentre se frignano i politici la Consulta scatta sull’attenti. Poi, si capisce, dovranno dichiarare incostituzionale anche la barzelletta che inspiegabilmente continua a campeggiare nelle aule di giustizia: “La legge è uguale per tutti”. C’è chi è morto dal ridere per molto meno.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Foto © Jacopo Bonfili