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di Antonio Ingroia
La rapida successione, in due giorni consecutivi, della sentenza della Cassazione che ha drasticamente ridimensionato il processo “Mafia Capitale” e, subito dopo, della pronuncia con la quale la Corte costituzionale ha cancellato l’ergastolo ostativo, ha creato grande confusione nell’opinione pubblica, anche grazie alla solita informazione nostrana sulla materia, prevalentemente sensazionalistica e superficialmente condizionata dalla logica dello schieramento tifoso. Per cui ciascuno si sente in dovere di sventolare la propria bandierina, “garantista” o “antimafia”. Come se i due concetti fossero antitetici, come se un’incisiva lotta alla mafia debba per forza comprimere i diritti di garanzia e chi ha a cuore la cultura delle garanzie debba stare sulla sponda opposta, a prescindere.

Invece bisogna saper distinguere. Mai come in questa occasione. E bisogna poter dire, senza timore di essere accusati di riduzionismo della gravità del fenomeno mafia a Roma, che il processo Mafia Capitale ha avuto un’impostazione sbagliata, perciò giustamente sanzionata dalla Cassazione. Perché vanno salvaguardate le categorie descritte dal legislatore nel 1982 e sapientemente scolpite nel dettaglio nei decenni successivi da una consolidata giurisprudenza, sempre della Cassazione, che ne ha salvato l’efficacia a fronte degli attacchi - quelli sì sospetti - al 416 bis e al concorso esterno, preziosissimo per sanzionare la contiguità mafiosa di una classe dirigente rivelatasi essa stessa criminale.

Insomma, per dirla in modo brutale: se tutto è mafia, niente è mafia, questo è il messaggio netto con il quale la Cassazione ha sconfessato l’impianto giuridico della Procura di Roma. Perché, se dilati in modo esorbitante l’ambito di applicabilità dell’articolo 416 bis, se qualifichi come mafiosa una non meno pericolosa associazione criminale finalizzata alla corruzione sistemica, fraintendi la funzione del 416 bis, ne annacqui la portata e ne riduci l’efficacia. Esattamente come è accaduto per il 41 bis, nato come regime differenziato per i mafiosi e diventato carcere duro da infliggere ai detenuti più pericolosi: col risultato che è diventato poco efficace per i boss e troppo accanito verso gli altri detenuti. Con l’ulteriore effetto negativo che lo “schiaffo” alla Procura di Roma viene strumentalmente utilizzato per ridare fiato alle critiche radicali al 416 bis, alle tesi riduzionistiche della mafia “solo siciliana” e così via. Quindi, un doppio errore della Procura di Roma che così rischia di determinare un grave arretramento del fronte antimafia, laddove quell’azzardo ha prodotto per qualche anno un’apparente avanzata e luminose prospettive per chi l’ha ideato e sostenuto, ma oggi subisce una pesante sconfitta, con un effetto boomerang per tutto il fronte che durerà probabilmente a lungo.

Analogo rischio è insito nella decisione della Corte Costituzionale che, annullando l’ergastolo ostativo per i delitti di mafia, pecca di astrattezza e di fraintendimento delle caratteristiche del fenomeno criminale su cui impatta. Occorrerà leggere la motivazione della decisione prima di tirare definitive conclusioni. Ma è chiaro che i giudici della Consulta sembrano avere “dimenticato” una caratteristica essenziale dell’ergastolo ostativo. E cioè che non si applica a ergastolani “qualsiasi”: l’istituto nasce - anche qui, però, esteso ad altre categorie, come il 41-bis - per essere applicato solo agli ergastolani di mafia, la cui appartenenza a organizzazioni come Cosa Nostra giustifica un regime “differenziato”. Parliamo di condannati definitivi perché killer o mandanti di omicidi o stragi di mafia che hanno stretto un “patto criminale di sangue” a vita.

Come spiegò Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone, da Cosa Nostra non si può mai uscire, se non in due modi: da morto o da collaboratore di giustizia. Non esiste altra via. Ecco perché rimettere in libertà (con i “permessi premio”) certi ergastolani significa restituirli alla mafia, anche se gli interessati non volessero. Ecco perché la sentenza sembra rivelare una scarsa conoscenza del fenomeno, perdonabile ai giudici europei della Corte di Strasburgo, ma difficilmente perdonabile a giudici costituzionali italiani.

Almeno in Italia la lezione di Falcone e Borsellino dovrebbe essere stata di insegnamento a tutti, specie quando ricordavano quanto fossero indispensabili, in tutti gli attori istituzionali, la conoscenza del fenomeno mafioso nella sua essenza e in tutte le sue sfaccettature e, nella magistratura, la massima professionalità e responsabilità, nella consapevolezza che gli errori di impostazione, gli approcci superficiali, le scelte precipitose e le fughe in avanti rischiano di compromettere il lavoro di decenni ed essere pagati da tutti a caro prezzo. Le vicende di “Mafia Capitale” e dell’ergastolo ostativo ne sono una dimostrazione.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Foto © Imagoeconomica

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