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di Leonardo Mala'
"La verità prima di tutto", la voce di Matthew, figlio della giornalista uccisa in un attentato a Malta il 16 ottobre 2017 di fronte alla platea di Perugia per spiegare come sopravvivere alle ingiustizie di Stato. Gli incontri della terza giornata del festival dedicato all'informazione

Perugia. Bel lavoro, Daphne, verrebbe da dire. Suo figlio Matthew Caruana Galizia è forse la rivelazione del Festival del Giornalismo numero 13. Il figlio di Daphne, ammazzata un anno e mezzo fa con una bomba piazzata nell’auto, era una new entry a Perugia: preciso, profondo, concreto, una statura sorprendente per i suoi 33 anni. Saranno guai grossi per i corrotti della sua piccola Malta e di tutto il mondo oscuro che in quell’isola lucra, finora al riparo da occhi indiscreti. Matthew, intervistato da Mario Calabresi, è arrivato col cellulare in mano e quindici punti tirati giù per l’occasione, un vademecum per i cronisti in pericolo, i loro familiari e per coloro che si espongono a ritorsioni di varia natura con le loro inchieste. Sintetizzando, al primo punto occorre comprendere che la strategia di delegittimazione in tutto il mondo sembra scritta da un unico autore. Che governi Orban, Duterte o Modi è bene capire come si comporta chi vuole zittire la stampa libera. Alla fine, come nel caso di Daphne Caruana Galizia o di Anna Politkovskaja, a premere il grilletto o l’innesco della bomba sono personaggi di piccolo calibro ma arrestare costoro e dire che si è fatta giustizia è come mettere in galera la pistola e non il colpevole. Non bisogna accettare questa giustizia di Stato, ma insistere per capire chi ha armato le loro mani.

Due: non dare ascolto a chi suggerisce di tenere un profilo basso, tutt’altro. Rivolgersi in alto: il Consiglio d’Europa non può incarcerare nessuno ma può produrre molte prove utili.

Tre: farsi aiutare con corsi di addestramento per non andare in paranoia al primo allarme. Dopo un evento così sconvolgente devi riuscire a fiutare i veri pericoli e a tralasciare quelli falsi.

Quattro: portare l’analisi politica a un livello più alto e più concreto (e qui piazza un ceffone a Salvini). “Ci sono personaggi come il vostro ministro degli Interni che spostano la polemica su questioni marginali anziché andare al sodo, ovvero al malaffare, alla corruzione”. Questo atteggiamento, secondo Matthew Caruana Galizia, è molto pericoloso e conforta sapere che in giro per il mondo ci sono diverse iniziative editoriali nate per diradare questa nebbia letale.

Cinque: “restare nel proprio, come raccomandava mia madre”, continuare a denunciare i crimini senza farsi tentare da candidature politiche o altro.

Sei: fare squadra con la propria famiglia. Io, mio padre, le mie zie e i miei fratelli ci sentiamo regolarmente, ci sosteniamo a vicenda. Ognuno di noi ha un compito e se uno non può c’è sempre chi lo sostituisce.

Sette: continuate a essere gentili con tutti, ad ascoltare chi vi parla e a preoccuparvi se l’altro sta bene o no. Non chiudetevi nel ruolo di vittima e avrete molti più amici intorno a voi.

Otto: sollecitare, con tutti gli organismi internazionali possibili, inchieste e istanze. I governi sono costretti a rispondere e questo li irrita, li disturba. Inoltre porta a riflettere tanti funzionari obbedienti se davvero è il caso di assecondare le richieste che gli giungono.

Nove: tenere traccia scritta di ogni vostra richiesta e comunicazione. Vi sarà utile successivamente, quando le risposte tarderanno o verranno confutate.

Dieci: capire che i cronisti uccisi non sono vittime dell’intolleranza, dell’emotività di un singolo. E qui Matthew insiste: “E’ una crisi globale dello stato di diritto, anche in Europa. E' il risultato di uno scontro sempre più elevato tra cronisti capaci e dotati di armi innovative e un potere smaliziato nell’applicare ogni forma di contrasto, lecita e no".

Undici: quando escono inchieste come i Panama Papers (lo scandalo che di fatto è costato la vita a Daphne), non mollarli mai. La verità prima di tutto, prima perfino del proprio posto di lavoro.

Dodici: dare fiducia alle organizzazioni internazionali. L’Onu non serve? Non è detto, “ci sono funzionari volenterosi e grazie a loro abbiamo potuto evidenziare le contraddizioni del governo maltese”.

Tredici: se i vostri avvocati se la prendono comoda cambiateli, senza aspettare, come fareste col vostro parrucchiere. “Alla fine avrete legali bravissimi come i nostri. Mia madre diceva che i potenti non hanno alcun rispetto delle tue debolezze”. Parole sante.

Quattordici: comportarsi con la stessa attenzione dei reali d’Inghilterra, non esporsi a critiche di alcun genere perché tutti hanno il fucile puntato contro di voi.

Quindici: fare comunità. “Da Maria Ressa (la cronista filippina, grande perseguitata di Duterte) ho imparato l’importanza di fondare community di sostegno ed è ciò che farò quando tornerò nel mio Paese”.

Piccoli studenti sopravvivono. E combattono
Jaclyn Corin e David Hogg hanno un numero stampato nella testa. Un numero che cresce inesorabilmente. Fino a poco tempo fa erano diciassette le vittime della strage alla quale sono scampati, il 14 febbraio 2018 alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, con altrettanti feriti. Due settimane fa una delle loro compagne, Sidney Aiello, 19 anni, si è tolta la vita, incapace di entrare più in un’aula scolastica, dopo la morte dei suoi due amici più cari, Meadow Pollack e Joaquin Oliver. Non è finita qui. Due giorni più tardi un altro dei ragazzi scampati alla morte ha deciso di farla finita. E siamo a 19.

Sono a Perugia, col loro zaino di lutti ma anche con la determinazione di prendere a calci un potere ottuso, in rappresentanza del movimento “March for our lives”, che si batte per cambiare radicalmente le leggi americane sul possesso di armi. Non ci vanno leggeri in merito. “Trump è un imprenditore fallito che tenta di recuperare prestigio manipolando l’opinione pubblica”, dice David, individuando il nemico numero uno della sua battaglia. Jaclyn rincara: “Mio padre ha vitato Trump ma ora ha capito quanto sbagliata sia la politica del nostro presidente”.

David se la prende anche con la propria scuola, colpevole di aver sbagliato completamente l’approccio psicologico dopo la tragedia: “Invece di chiederci come stavamo hanno insistito a farci lezioni su come saremmo dovuti stare”. Un po’ meglio le cose in famiglia, con i genitori che hanno volentieri lasciato spazio e visibilità ai propri figli in questa battaglia in giro per il mondo. Sul peso che videogiochi e realtà virtuale possono avere su questi episodi scuotono la testa entrambi: “Videogiochi violenti esistono anche in Paesi dove certe cose non accadono. E’ la disponibilità delle armi a generare stragi come la nostra, sono le lobby dei produttori e i politici conniventi il primo anello della catena”.

Gilet gialli dimenticati
Imbarazzato e forse un pizzico autoreferenziale il mea culpa della stampa francese sui gilet gialli, un caso che dovrebbe insegnare molto anche a noi, come suggeriscono diversi recenti episodi. L’avversione delle periferie contro la stampa istituzionale era prevedibile. Da anni i cronisti arrivano in massa nei quartieri difficili quando c’è un delitto o un episodio di cronaca nera. La figura del corrispondente di periferia, presente ogni giorno nei territori degradati, è ovviamente sconosciuta e questo ha reso impossibile avere informazioni durante l’ultima rivolta francese. Gli unici a rimediare qualcosa sono stati coloro che avevano un mediatore dentro la protesta. Per gli altri minacce e anche aggressioni fisiche. Morale, quando si parla di periferie abbandonate dobbiamo farci tutti un po’ i conti, non solo la politica. Ne hanno parlato Sylvie Kauffmann di Le Monde, Pierre Louette del Groupe Les Echos - Le Parisien, Florence Martin-Kessler di Live Magazine e Pascal Ruffenach del Groupe Bayard.

Mentana, open a sorpresa
Enrico Mentana ha parlato del suo tg e soprattutto del neonato “Open”, la testata web nata quattro mesi fa e finanziata in prima persona. "Per anni qui a Perugia ho detto che i giovani erano stati fottuti da una classe giornalistica attempata che aveva pensato a tutelare solo se stessa, quindi ho chiesto ai colleghi ben pagati come me di finanziare un giornale per i più giovani senza avere una sola adesione. Alla fine, per mantenere fede alla promessa, ho fatto tutto da solo e adesso, dopo soli quattro mesi di esperienza, vedo colleghi sessantenni storcere il naso perché il giornale non risponde alle loro attese. Un giornale di quattro mesi fatto solo da ragazzi!". Poi annuncia che c’è a disposizione uno stage di un anno al quale possono concorrere solo i ragazzi presenti in sala, previo compilazione di un curriculum. E si scatena il finimondo.

Oscar Camps, dove sono gli intellettuali?
Li chiama più volte in causa, gli intellettuali, naufraghi del pensiero. Oscar Camps Gausachs arriva a Perugia in maglietta rossa, una sorta di Gino Strada (o Miglia, visto che parliamo di un uomo che sta in mare da più di 25 anni), creatore di Open arms, la ong diventata famosa per il salvataggio di Josepha ma che nel frattempo ha salvato 60 mila persone, come un’intera cittadina di provincia, compresi vecchi, bambini e gente che urla “noi qui non li vogliamo”.

Se volessi lucrare sui trasporti in mare non salverei disperati da soccorrere e sfamare, riempirei le navi di droga e armi e di certo non avrei tutte queste denunce”, osserva sconsolato. Camps sferza i politici incapaci e miopi, esorta le popolazioni europee ad avere atteggiamenti minimamente umani e, implicitamente, denuncia una crisi e un declino demografico che dovrebbe incoraggiare l’arrivo di nuovi cittadini dall’Africa, persone che con i loro pur piccoli guadagni riescono a far studiare i propri figli o nipoti nel loro Paese, aiutando davvero a casa loro le popolazioni più disagiate, “anziché depredarle di ogni bene”, un collasso demografico che somiglia a suo modo al collasso ambientale del pianeta, in un mondo che ormai annaspa su più fronti.

Sconvolto dall’immagine di Aylan Kurdi, il bimbo di tre anni, di etnia curdo-siriana, ritrovato bocconi sulla spiaggia di Bodrum nella sua magliettina rossa, Camps ha preso le sue due imbarcazioni solcando il mare e come ogni marinaio ha storie incredibili da raccontare, quelle che nessuno in Occidente sembra aver voglia di conoscere. “La stessa storia di Josefa spiega tante cose - racconta Camps - una donna fuggita dal suo paese in Camerun perché il marito la pestava a sangue non riuscendo ad avere figli e che è stata abbandonata in un gommone che molto probabilmente la guardia costiera libica ha bucato, facendo morire una madre col figlio di dieci anni, di fronte alla rinuncia di quelle donne a ritornare nei campi di tortura libici”.

Già la Libia e la sua guardia costiera. “Nel mio paese, la Spagna, nel sito del governo si raccomandano i propri connazionali a non andare in Libia per nessun motivo, considerato un luogo pericolosissimo, dove imperversano banditi di ogni specie. Però sono affidabili nel prendere in consegna i profughi. Strano, no?”. Ovviamente (e giustamente) Camps ne ha molte anche per la stampa, per la sua superficialità e per le troppe cautele usate nel denunciare questa colpevole ecatombe nel Mediterraneo, nel “mare di sterminio”. Gli applausi della sala non tolgono l’amaro.

(si ringrazia Davide Ficarola)

Tratto da: repubblica.it