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italia occulta turone chiareletteredi Stefania Limiti
Il delitto politico più importante del Novecento italiano porta i segni di un’azione perfetta per deviare il corso degli eventi: nella scelta dell’obiettivo, nelle sue modalità di realizzazione, nella scenografia, nei personaggi principali e nelle comparse. Pubblichiamo la postazione di Stefania Limiti al volume “Italia Occulta” di Giuliano Turone, in questi giorni in libreria edito da Chiarelettere.

Il momento giusto
Il caso Moro è il paradigma, il miglior modello della destabilizzazione. L’archetipo, direbbe lo psicanalista. Il delitto politico più importante del Novecento italiano, infatti, porta i segni di un’azione perfetta per deviare il corso degli eventi: nella scelta dell’obiettivo, nelle sue modalità di realizzazione, nella scenografia, nei personaggi principali e nelle comparse. Tanto che Leonardo Sciascia nella sua insuperabile e immediata analisi (L’affaire Moro, ottobre 1978) pensa al cadavere del presidente della Dc citando Elias Canetti: «La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto “al momento giusto”». Moro è stato ammazzato proprio quando la democrazia italiana stava sperimentando nuove strade verso il futuro, per superare una impasse che il partito popolare più policentrico e articolato dell’Occidente, la Dc, non sapeva più affrontare. Una sfida che il partito comunista più forte d’Europa, il Pci, aveva raccolto.

Giuliano Turone in questo lavoro si propone di far conoscere anche alle giovani generazioni quella faccia del potere occulto che ha potuto osservare più da vicino di tutti noi, e ci ricorda che il «Piano di rinascita democratica» venne elaborato tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976. Vale a dire proprio quando il governo italiano era guidato da Aldo Moro, le cui aperture nei confronti della sinistra e dell’eurocomunismo di Enrico Berlinguer non furono mai accolte con entusiasmo né dagli ambienti della Nato (e dalle loro propaggini occulte) né dalla destra della Democrazia cristiana, rappresentata da Giulio Andreotti.

Mentre matura l’assassinio politico di Aldo Moro, tra la fine del 1976 e l’inizio del 1977, si ha notizia della ricostituzione in forma articolata della P2, «risvegliata» già nel dicembre del 1971, come prova una circolare del gran maestro Lino Salvini, «per rafforzare ancor più il segreto di copertura indispensabile per proteggere tutti coloro che, per determinati motivi particolari inerenti al loro stato, devono restare occulti». [1]

A metà degli anni Settanta la società italiana è in gran movimento e le prospettive di una modifica degli equilibri politici verso orizzonti progressisti sono molto concrete. La P2 irrompe clandestinamente nella scena con l’obiettivo di trasferire nelle sedi occulte i centri decisionali del potere. La loggia del «maestro venerabile» di Arezzo, in effetti, riesce a imporsi quando è il momento di ridisegnare tutti gli organici dei servizi segreti appena ristrutturati dalla recente legge di riforma. Nella P2 si ritrovano poi anche alti ufficiali dell’esercito, dell’aeronautica, della marina e dei carabinieri, ministri, parlamentari e politici di vari partiti (Dc, Psi, Psdi, Pli, Msi), alti magistrati (tra cui il procuratore generale di Roma Carmelo Spagnuolo), giornalisti, finanzieri come Roberto Calvi e Michele Sindona, imprenditori come il futuro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

La loggia finanzia anche i terroristi neri, ma nessuna autorità giudiziaria o politica ha mai accolto la precisa accusa rivolta nella relazione finale della Commissione parlamentare sulla P2 della presidente Tina Anselmi, che esplicitamente indica nella loggia di Licio Gelli il motore finanziario di coloro che hanno eseguito la strage sul treno Italicus (agosto 1974). [2] Inoltre, la loggia finanzia gli stessi governi: Roberto Calvi, il finanziere a capo del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri di Londra, raccontò a sua moglie che i soldi della P2 erano stati utilizzati per convincere i socialisti a entrare nel governo Cossiga dell’aprile del 1980, con tre ministri e cinque sottosegretari iscritti alla loggia. Esisteva una entità superiore – il vertice della piramide più volte ricordata nelle pagine di questo volume – che proteggeva lo stesso Gelli: infatti, in una riunione del 5 marzo 1971, dopo aver elencato gli argomenti all’ordine del giorno, nel riassunto del dibattito il «venerabile» scrive: «Nell’impossibilità di poter rispondere, giriamo questo quesito alla Sede centrale affinché, se lo riterrà opportuno, possa illuminarci a riguardo».[3]

La campagna di primavera delle Br
Quando le Brigate rosse, perseguendo la loro strategia rivoluzionaria di assalto allo Stato imperialista delle multinazionali, il Sim, avviano la Campagna di primavera – ossia l’insieme delle azioni armate contro la Democrazia cristiana che incarna totalmente e unicamente il Sim, dal loro punto di vista – Aldo Moro era già da tempo sotto i riflettori dell’attenzione internazionale. Da oltre un decennio, cioè da quando aveva tentato l’esperimento del centro-sinistra portando i socialisti nel governo e, soprattutto, portando al centro del Mediterraneo l’idea di Enrico Mattei e un protagonismo italiano che suscitavano irritazione e aperta ostilità nel mondo anglosassone. Ma le Br vanno per la loro strada, seguono il loro rigido schema ideologico, sembra non importargli chi sia Moro, cosa faccia Moro, chi siano i suoi amici e i suoi nemici. Avrebbero dovuto rapire Giulio Andreotti, se non avesse avuto una scorta rafforzata grazie ai suoi incarichi istituzionali. Scelgono Moro, l’unico tra i grandi leader della Democrazia cristiana mai sfiorato da sospetti di collaborazionismo con gli uomini della strategia della tensione.

Il lavoro politico di Aldo Moro, invece, la sua originale visione della sovranità italiana e del nostro futuro, rendono l’Operazione Frezza, così la chiamavano le Br per il ciuffo bianco sulla testa dell’obiettivo, un incrocio di interessi politico-strategici, un nodo gordiano nella prospettiva degli equilibri di tutta l’area atlantica. Un momento terribilmente decisivo, nel quale la presenza brigatista diventa la sola visibile ma non più sola né centrale. Scriveva lucidamente Giuseppe De Lutiis che il significato dell’operazione di via Fani è andato ben oltre i confini italiani: tra il 1963 e il 1995 cadono, in circostanze diverse, i due Kennedy, Lumumba, Luther King, Allende, monsignor Romero, Sadat, Olof Palme, Indira Gandhi, Rabin. Questi delitti eccellenti sono stati decisi «in ambienti prossimi all’establishment internazionale, ambienti che possono scegliere l’esecutore materiale nell’area dell’estremismo politico o in quello della criminalità professionale, o addirittura in settori vicini a servizi segreti o a corpi speciali. Questo tipo particolare di delitto è difficilissimo da chiarire».[4]

Tanto che il caso Moro, il groviglio di notizie certe e notizie false, indizi, piste finte o costruite ad arte, indagini non fatte per sciatteria o con più malizia, suggestioni e quant’altro, è così costellato di interferenze, di presenze invisibili, come lo sono i poteri occulti, da diventare inestricabile, un luogo simbolico in cui affogano tutti i lati irrisolti della nostra storia. Perché i fatti impressi nel nostro immaginario collettivo – la fuga delle auto dopo l’agguato, gli spari, la prigione, le ultime ore di vita di Moro, la dinamica della morte – sono una rappresentazione della realtà ma non la realtà: essi sono stati mediati dalla narrazione scritta dal brigatista Valerio Morucci su un tavolo al quale sedevano anche uomini politici e i servizi segreti. Il suo memoriale è una traslazione dei fatti, come ormai ha definitivamente accertato la Commissione d’inchiesta che ha svolto i suoi lavori nella XVII legislatura. Nel quarantennale della strage di via Fani si è sentita solo una timida voce a sussurrare finalmente una parola che potrebbe aprire uno squarcio: è quella di Adriana Faranda che dice a Ezio Mauro: «Avevamo discusso i dettagli, certo non il colpo di grazia» [5] inflitto poi agli agenti della scorta di Moro secondo un rituale assassino completamente estraneo alla pratica delle organizzazioni armate rosse.

La P2 e il caso Moro
È particolarmente illuminante quel che spiega Giuliano Turone a proposito del «Piano di rinascita democratica» e del suo obiettivo di rivitalizzazione del sistema: non è più tempo di golpe, a pochi passi dagli anni Ottanta, ma di interventi (apparentemente) leggeri per «sollecitare» tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina, dagli organi dello Stato ai partiti politici, alla stampa, ai sindacati, ai cittadini elettori. Magari si dovrà pensare necessariamente, in seguito, anche ad «alcuni ritocchi alla Costituzione successivi al restauro delle istituzioni fondamentali». Ma dopo che la «sollecitazione» – termine mutuato dall’ingegneria meccanica dove indica l’azione esterna messa in pratica per raggiungere un certo scopo, come opportunamente spiega Turone – è andata a buon fine, agendo su una struttura o su un sistema, insiste Turone, e ne ha modificato lo stato provocandone una deformazione. La P2 rinasce e si struttura per evitare un cambiamento politico indesiderato, per orientare le scelte del paese verso lidi più rassicuranti per gli equilibri atlantici.

Cosa c’entra con il caso Moro? Intanto, non dimentichiamo quel che Licio Gelli disse nel 2011 nel corso di una intervista, e cioè che Moro era stato portato in un luogo vicino a via Fani e tenuto per almeno una decina di giorni in un garage di «quelli che vanno sottoterra».[6] Il riferimento è molto circostanziato. Solo la Commissione d’inchiesta sul caso Moro della XVII legislatura ha svolto una accurata indagine che ha messo in evidenza l’importanza cruciale, per il sequestro e il rilascio delle auto usate nell’agguato, di una palazzina, dotata di garage sotterranei dai quali era possibile accedere agli appartamenti, situata in via Massimi 91 e di proprietà dello Ior. È vero che già il giornalista di «OP» Mino Pecorelli aveva fatto riferimento in un famoso pezzo dal titolo Vergogna buffoni (16 gennaio 1979) a «un garage compiacente che ha ospitato le macchine servite nell’operazione», e che una informativa della guardia di finanza nell’immediatezza dei fatti parlava di una sede «extraterritoriale», vicina al luogo dell’agguato, come possibile punto di primo riparo. Ciononostante, l’affermazione di Gelli resta una testimonianza notevole se non inquietante.

Del resto, il capo della guardia di finanza dell’epoca, Raffaele Giudice, era della P2 (tessera 1634). E poi ben undici dei dodici membri del cosiddetto Comitato di crisi, varato per direttiva dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, sono della loggia massonica dell’aretino Gelli. Tra loro il criminologo Franco Ferracuti (tessera 2137), il direttore dell’ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato (tessera 1620), il numero uno del Cesis Walter Pelosi (tessera 754), il capo di stato maggiore della marina Giovanni Torrisi (tessera 631), il numero due del Sismi Pietro Musumeci (tessera 487). Il Comitato non era un guscio vuoto, ebbe un ruolo fondamentale nel congelamento delle indagini, paralizzando la macchina investigativa, nel destituire la Procura di Roma durante i cinquantacinque giorni del sequestro e nel far passare per pazzo Aldo Moro. Non può essere Moro a scrivere, si disse delle sue lettere dove argomentava e proponeva una soluzione politica al sequestro. E gli amici dissero che era vero, non poteva essere lui. Il Comitato non chiuse le porte in faccia al mediatore, l’uomo inviato dal dipartimento di Stato per evitare il caos, il criminologo Steve Pieczenik, che spiegherà dopo tanti anni di essere venuto non per salvare Moro ma per creare il panico tra i rapitori, disorientarli.[7] Ci riuscì.

Tutti i tentativi di intermediazione, infatti, tutte le possibilità di avviare una trattativa falliscono inspiegabilmente. Anzi, neanche iniziano. E le Br volevano trattare. Uno dei comunicati diffusi in quei giorni, il numero 6, reso noto il 15 aprile, annunciava la fine del processo a Moro e la sua condanna a morte, ma in realtà conteneva forti segnali di indirizzo opposto a quella conclusione apparentemente inappellabile. Tanto da affermare in modo diretto di aver preso la decisione di non diffondere pubblicamente il contenuto degli interrogatori, rimettendo all’avversario la scelta della strada da intraprendere: una chiara disponibilità a trattare, sia sulle carte sia sull’ostaggio.

In una drammatica telefonata fatta qualche giorno prima del 9 maggio (giorno della tragica conclusione del sequestro), Valerio Morucci dice a don Antonello Mennini, parroco amico di Aldo Moro: «Dica alla signora Moro che non riusciamo ad aprire quel contatto! Ha capito? Le dica che non siamo stati contattati da nessuno!». A metà aprile Francesco Cossiga, il ministro dell’Interno, sfuggendo alla supervisione del criminologo, chiese al suo amico Giuseppe Zamberletti di incontrare insieme al colonnello Varisco (poi ucciso dalle stesse Br) esponenti dissidenti delle Brigate rosse con i quali era entrata in contatto l’Arma dei carabinieri di Milano. Non si è mai capito, né Zamberletti, più volte richiesto dall’autrice, ha mai saputo spiegare perché l’incontro non si fece, chi diede lo stop. Così fu per un altro esponente della Dc, Guido Bodrato, che attese invano un pomeriggio presso la sede della Caritas una telefonata per avviare un dialogo con i rapitori.

Una montagna di soldi per Moro
E come poté abortire la più potente iniziativa, quella di Paolo VI, il papa amico di Moro? C’erano tanti soldi in ballo. Pensate a questa scena, raccontata da monsignor Fabio Fabbri, segretario di don Cesare Curioni, responsabile dei cappellani carcerari; siamo a Castelgandolfo, residenza pontificia, 6 maggio 1978. Aldo Moro è prigioniero delle Brigate rosse da oltre cinquanta giorni. In una di quelle stanze Paolo VI parla con monsignor Cesare. D’improvviso il papa, dice Fabbri che era lì, si avvicina a una consolle coperta con un panno di ciniglia azzurra e solleva un lembo: compare una montagna di soldi, mazzette di dollari, con fascette di una banca ebraica, del valore di circa 10 miliardi di lire, messi a disposizione per il riscatto. Da dove provenivano tutti quei soldi? E, rimasti inutilizzati, dove finirono? Nessuno lo sa. Don Curioni è morto nel 1996 senza che quel mistero fosse svelato, monsignor Fabbri ha detto di non saperlo. Fabbri ha però detto che non provenivano dallo Ior.

E poi ci fu il tentativo del «confessionale», quello di padre Enrico Zucca, il cappellano dell’Anello, il servizio segreto clandestino più volte richiamato da Giuliano Turone. All’epoca del sequestro Moro, padre Zucca era un vecchio frate con nostalgie per il Ventennio. Non molto tempo dopo sarebbe morto, il 15 luglio del 1979. La sua salute era malferma ma avrebbe fatto volentieri un favore al suo papa. Raccontò lui stesso a un settimanale, [8] pochi giorni dopo il 9 maggio, delle trattative avviate e fallite inspiegabilmente a un passo dalla fine.

La personale storia di relazioni e conoscenze consentì a padre Zucca di tentare una via per la salvezza di Aldo Moro, informando del suo progetto anche la famiglia del rapito. Il frate era in grado di ottenere un’ingente somma di denaro che avrebbe permesso di pagare un riscatto in cambio della vita di Moro: tramite la Fondazione Balzan, un’organizzazione che gestiva i lasciti depositati in Svizzera dalla omonima famiglia, stimati all’epoca in circa 70 miliardi di lire, assicurava di raccogliere, tra imprenditori di spicco – tra cui si fecero i nomi di Nando Peretti, presidente dell’Api, Armando Piaggio e Carlo Pesenti –, 50 milioni di dollari da offrire alle Brigate rosse in cambio della libertà di Moro. La sua influenza gli consentiva inoltre di rivolgersi direttamente al presidente del Consiglio Giulio Andreotti, al quale scrisse almeno un paio di lettere. L’incontro rivelato da padre Zucca avvenne a Milano nella prima fase del sequestro, il 28 marzo.

Ma anche lui fallì. Una dura sconfitta che, forse, affrettò la sua dipartita, avvenuta quasi un anno dopo, non prima di aver rivelato tutte le sue mosse, dettaglio per dettaglio, in quei due articoli che hanno svelato l’intraprendenza del priore. E non è tutto qui. I contatti tra padre Zucca e i brigatisti vennero monitorati dai servizi segreti,[9] ma nessuna indagine venne fatta sugli emissari dei rapitori. Quell’informazione fu invece taciuta e, dunque, mai utilizzata: solo un anno dopo il Sisde sollecitò il proprio centro di Milano ad acquisire notizie sul religioso e sui suoi contatti con i rapitori di Moro. Un intervento decisamente tardivo.

Nessun organo inquirente, mai nessun magistrato, mai nessuna commissione parlamentare d’inchiesta sono stati informati ufficialmente delle trattative che sarebbero nate dalla intermediazione del priore dell’Angelicum, nessuno poté mai chiedergli spiegazioni finché era in vita, né indagare subito dopo.

La circostanza è così irragionevole che possiamo legittimamente ritenere che l’emersione pubblica della fallita trattativa di padre Zucca avrebbe comportato il rischio che venisse svelato l’Anello. Ma l’esistenza di questa agenzia clandestina era un segreto che apparteneva ai sottofondi della Repubblica. Nessuno l’aveva mai ufficializzata, era stata usata sempre per i lavori sporchi, i suoi membri erano ex fascisti o informatori mercenari, gente «non presentabile» la quale, tuttavia, entrava e usciva dalle stanze del potere restando sempre invisibile.

Quale interferenza praticò l’Anello nel caso Moro?
Questa struttura aveva una capacità altissima di raccogliere informazioni, grazie a una consolidata rete di persone legate da un patto postfascista sottoscritto all’alba della Repubblica. La assoluta informalità del gruppo non impedì mai l’alto livello informativo, tanto che Adalberto Titta, una specie di coordinatore del servizio, fu in grado di assicurare a un suo membro, Michele Ristuccia, che il Comunicato numero 7 delle Brigate rosse – «Lo abbiamo ammazzato, andate a prendere il cadavere del presidente sul fondo del lago della Duchessa» – era falso.[10] E lo fece appena fu reso noto, tanto che Ristuccia, a sua volta, disse al segretario generale della Fiera di Milano, dove egli lavorava, di non sospendere nulla, quel giorno non c’erano lutti da onorare. Intanto il ministero dell’Interno, è bene ricordarlo, inviava sul luogo decine di uomini, sommozzatori, cani poliziotto, elicotteri e dava ordine di bucare lo strato di ghiaccio che copriva il lago e tutto il paese stette ore e ore con il fiato sospeso.

Afferma lo stesso Ristuccia che Titta gli aveva detto prima del 16 marzo che Moro correva seri rischi di sequestro. Non era certo l’unico ad aver avuto quella soffiata: sappiamo che l’allarme per la sicurezza del presidente della Dc era giunto a diverse orecchie, come racconta ogni antologia del caso. Di certo sono interessanti due circostanze: il 15 marzo arrivò al centro dei servizi segreti di Bari, tramite un detenuto, Salvatore Senatore, la notizia di un’azione contro Moro, ma la segnalazione fu congelata, restò nel cassetto; e proprio in quella città, Bari, stando alle parole dello stesso Ristuccia,[11] già nel 1977, intorno a settembre, nella lussuosa villa di un politico, si sarebbe svolta una riunione segretissima fra Titta, alcuni suoi fidati collaboratori e importanti funzionari dell’amministrazione statunitense e italiana. L’oggetto dell’incontro era la supervisione della situazione italiana e, in particolare, delle mosse politiche di Aldo Moro, considerato notoriamente e da tempo non affidabile e pericoloso per la stabilità degli interessi statunitensi.

Purtroppo molte di queste piste investigative, scoperte pubblicamente molto tardi, non sono mai state perseguite. L’Anello, potremmo dire con una metafora, ha attraversato tangenzialmente i cinquantacinque giorni. Raccolte le informazioni, svolto il monitoraggio della situazione, non fu attivato per liberare Moro: l’iniziativa di padre Zucca risulta essere stata personale e solitaria. Una inerzia perfettamente allineata a quella di tutti gli organi investigativi – durante i cinquantacinque giorni – e del tutto aderente ai diversi segnali di stop dati ai vertici di Cosa Nostra, ’ndrangheta e camorra, pronti a barattare grandi benefici in cambio dell’aiuto nelle ricerche di Aldo Moro.

È inaudito che i vertici del Sismi abbiano creato un team speciale per la gestione del caso Moro completamente segreto [12] e che nessuno abbia mai avuto nulla da dire nel corso degli anni, a parte il deputato di Democrazia proletaria Luigi Cipriani che lo denunciò. Si chiamava ufficio controllo e sicurezza e aveva sede a Roma, precisamente a Forte Braschi, all’interno del palazzo del Sismi, dove Titta era di casa. La direzione era stata affidata al generale piduista Pietro Musumeci, nel gruppo c’era il colonnello Camillo Guglielmi che non era all’epoca ufficialmente negli organici del Sismi ma operava a Modena nella Quarta brigata dei carabinieri: quest’ultimo, come è noto, si trovò a passare in via Fani proprio in prossimità dell’agguato. Il gruppo «scelto» era stato voluto dal capo del Sismi Santovito, altro piduista, e il vicedirettore era Abelardo Mei, amico d’infanzia di Titta. Anche il colonnello Belmonte era della squadra. Solo poco tempo dopo, nell’aprile del 1981, Titta, Mei, Belmonte e Musumeci entrarono in azione per liberare l’assessore campano della Democrazia cristiana Ciro Cirillo, rapito dalla colonna napoletana delle Br di Giovanni Senzani. Quella volta le trattative si aprirono subito e divennero una fogna a cielo aperto, dove servizi segreti, camorra e brigatisti strinsero patti mai resi noti con una impressionante scia di morti ammazzati.

Anche il cuore di Adalberto Titta saltò subito dopo, il 27 novembre di quell’anno (chissà se la sua morte è su quella scia). Nell’ospedale della città di Orvieto dove venne ricoverato accorsero subito ufficiali di vari ordini e gradi. La sera prima aveva cenato con il colonnello Federigo Mannucci Benincasa, ufficiale dei carabinieri che entrò a far parte del Sifar nel giugno del 1965 e che assunse la direzione del Centro controspionaggio di Firenze il 16 giugno del 1971. Lasciò quell’incarico nel marzo del 1991, dopo diciannove anni e nove mesi, caso forse unico nel servizio segreto, divenuto nel frattempo dapprima Sid e poi Sismi. Benincasa non disse di quella cena agli investigatori del Ros che cercavano di mettere insieme il puzzle dell’Anello, struttura che mostrò di non conoscere. Forse, parlando dell’incontro serale, l’alto ufficiale avrebbe poi dovuto inesorabilmente spiegare altri dettagli. Ma non lo fece.

Sull’esistenza dell’Anello ora non ci sono dubbi ma di certo avremmo capito molto di più da una leale collaborazione di molti uomini dello Stato. Anche del caso Moro. Invece siamo fermi alle parole di Sciascia, che pasolinianamente scrive: «In Italia, di ogni mistero criminale molti conoscono la soluzione, i colpevoli, ma mai la soluzione diventa ufficiale e mai i colpevoli vengono, come si suol dire, assicurati alla giustizia».

NOTE

1) Commissione P2, Relazione Anselmi, p. 16.

2) «Gli accertamenti compiuti dai giudici bolognesi […], quando vengano integrati con ulteriori elementi in possesso della Commissione, [consentono di] affermare: 1) che la strage dell’Italicus è ascrivibile a una organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana; 2) che la loggia P2 svolse opera di istigazione agli attentati e di finanziamento nei confronti dei gruppi della destra extraparlamentare toscana; 3) che la loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può ritenersene anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale. […] Già nella sentenza-ordinanza bolognese di rinvio a giudizio si leggeva: “Dati, fatti e circostanze autorizzano l’interprete a fondatamente ritenere essere quella istituzione [la loggia P2 n.d.a.], all’epoca degli eventi considerati, il più dotato di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale” […] Più puntualmente nella sentenza pur assolutoria d’Assise si legge: “[…] La tesi ha trovato nel processo, soprattutto con riferimento alla ben nota loggia massonica P2, gravi e sconcertanti riscontri […]. Risulta adeguatamente dimostrato:

a) come la loggia P2, e per essa il suo capo Gelli Licio […], nutrissero evidenti propensioni al golpismo; b) come tale formazione aiutasse e finanziasse non solo esponenti della destra parlamentare […], ma anche giovani della destra extraparlamentare, quanto meno di Arezzo (ove risiedeva appunto il Gelli); c) come esponenti non identificati della massoneria avessero offerto alla dirigenza di Ordine nuovo la cospicua cifra di

L. 50 milioni al dichiarato scopo di finanziare il giornale del movimento (si vedano sul punto le deposizioni di Marco Affatigato, il quale ha specificato essere stata tale offerta declinata da Clemente Graziani); d) come nel periodo ottobre-novembre 1972 un sedicente massone della ‘loggia del Gesù’ ([…] poi fusasi con quella di Palazzo Giustiniani), […] avesse cercato di spingere gli ordinovisti di Lucca a compiere atti di terrorismo, promettendo a Tomei e ad Affatigato armi, esplosivi e una sovvenzione di L. 500.000, […essendo probabile] che anche tale fantomatico massone appartenesse alla loggia P2” […]. Concludono peraltro malinconicamente i giudici bolognesi con la constatazione di un limite invalicabile alla loro indagine, costituito dal fatto che “l’imputazione riguarda solo esecutori materiali e non, ahimè, lontani mandanti”» (Commissione P2, Relazione Anselmi, pp. 93-95).

3) Atti dell’inchiesta sul traffico d’armi del giudice Carlo Palermo, in Antonio Cipriani e Gianni Cipriani, Sovranità limitata. Storia dell’eversione atlantica in Italia, Edizioni associate, Roma 1991, p. 188.

4) Giuseppe De Lutiis, Il golpe di via Fani. Protezioni occulte e connivenze internazionali dietro il caso Moro, Sperling & Kupfer, Milano 2007.

5) Intervista di Ezio Mauro a Adriana Faranda per lo speciale andato in onda il 16 marzo del 2018 su Rai Tre.

6) Intervista del 2011 di Giancarlo Feliziani a Licio Gelli, trasmessa dal canale La7 il 18 dicembre 2015.

7) Emmanuel Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo trent’anni un protagonista esce dall’ombra, Cooper, Roma 2008.

8) Mario La Ferla, Se Curcio gradisse un po’ di miliardi, «l’Espresso», 28 maggio 1978; Id., Padre Zucca non fa colpi di testa, «l’Espresso», 4 giugno 1978.

9) Come prova un appunto del 4 aprile 1978, indirizzato al dottor Silvano Russomanno – il pupillo del potente Umberto Federico D’Amato, all’epoca vicecapo del servizio informazioni interno – secondo cui il 31 marzo del 1978 padre Zucca aveva confidato a un amico di essere stato avvicinato da una persona che gli aveva chiesto se fosse stato disposto a fare da tramite per trattative future con le Brigate rosse, e che il frate era disponibile a svolgere l’arduo e doveroso compito e a seguire l’evolversi della vicenda.

10) «Ricordo che lo stesso giorno in cui si seppe che nel lago della Duchessa sarebbe stato trovato il cadavere di Moro, il Titta mi disse in tempo reale che si trattava di una “bufala”. Ciò, ovviamente, me lo disse prima che ci fosse la smentita. Lui abitava in via Mussi che era a due passi dalla Fiera ove io quel giorno mi trovavo. Ricordo che era aprile e c’era la Fiera aperta. Ricordo molto bene questo particolare perché, quando i media dettero la notizia, il segretario generale della Fiera, Franci, aveva manifestato l’intenzione di sospendere l’evento e di proclamare il lutto. Io allora telefonai a Titta che venne a trovarmi subito e mi disse: “Di’ a Franci di non farsi problemi, è tutta una bufala”» (Inchiesta della Procura di Brescia sulla strage di piazza della Loggia, dichiarazione di Michele Ristuccia al Ros, 9 dicembre 1998).

11) Stefania Limiti, L’Anello della Repubblica, Chiarelettere, Milano, Premessa all’edizione del 2014.

12) Ivi, p. 183.

(16 gennaio 2019)

Tratto da: temi.repubblica.it/micromega-online

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