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travaglio marco c agfdi Marco Travaglio
Diciamocelo chiaro e tondo: nei quattro mesi che ci separano dalle elezioni capiremo chi siamo noi italiani, cosa vogliamo diventare e quali speranze abbiamo per il futuro. Se, pur con tutti i nostri difetti, abbiamo qualche possibilità di salvarci (come ci era sembrato un anno fa dopo la strepitosa vittoria dei No al referendum costituzionale) o siamo invece condannati definitivamente a coincidere con tutti i peggiori luoghi comuni che ci perseguitano da secoli. Col Rosatellum-Fascistellum ci hanno scippato un’altra volta il diritto di voto, cioé di scegliere i nostri parlamentari: e, a parte qualche migliaio di persone davanti al Senato, nessuno ha fatto una piega. L’altro giorno la Rai, che noi tutti foraggiamo col canone nella bolletta elettrica, ha messo alla porta la sua giornalista più autorevole, una delle poche voci libere rimaste nel cosiddetto servizio pubblico, cioé Milena Gabanelli: e, a parte le 193 mila persone che hanno aderito all’appello del Fatto, nessuno ha fatto un plissé. Da dieci anni, da quando la Casta finì nel mirino dell’opinione pubblica grazie al best-seller di Stella e Rizzo e ai V-Day di Beppe Grillo, la classe politica promette di tagliarsi i privilegi, a cominciare dai vitalizi, e ora scopriamo che Pd e FI vogliono la pensione a 63 anni per sé e a 67 per noi comuni mortali: ma, a parte i 5Stelle e qualche cane sciolto, nessuno protesta.

Ora arriva pure il bavaglio sulle intercettazioni, che quando lo voleva B. riempiva le piazze di giornalisti, editori, intellettuali e politici di centrosinistra, mentre ora che lo fa il centrosinistra tutti zitti. E torna pure Berlusconi, protagonista l’altroieri di una scena horror, da film degli zombie, e non solo per l’aspetto da mummia imbalsamata, al teatro Politeama di Palermo: lui, il frodatore pregiudicato, il corruttore pluriprescritto e l’amico dei mafiosi di nuovo indagato per strage, l’interdetto senza diritti civili che non può né votare né essere eletto, arringava la folla circondato da impresentabili come D’Alì, Genovese, Cascio e un esercito di condannati, imputati, inquisiti, riciclati, voltagabbana, scambisti di voti. Invitava alla pugna contro “i comunisti”, con la frizzante freschezza con cui si potrebbero evocare i mazziniani, o le suffragette, o i cartaginesi. Mandava messaggi alla mafia che non spara più, annunciando la mirabolante riforma della giustizia che vieterà di arrestare corrotti, corruttori, concussori, frodatori, evasori, mafiosi, bancarottieri, falsificatori di bilanci, peculatori e speculatori, abusatori di pubblici poteri, scambisti di voti, ma anche ladri, scippatori, rapinatori, stupratori, spacciatori e trafficanti di droga.

Già, perché la custodia cautelare sarà riservata ai “delitti di sangue”, mentre tutti gli altri criminali pagheranno una comoda “cauzione” (sempreché abbiano accumulato cospicui bottini per potersela permettere). E naturalmente mandava carezze all’amico Pd e insulti ai 5Stelle, che osano nominare e talvolta persino praticare l’onestà. Intanto pregava il suo candidato, il camerata Nello Musumeci, di non parlare più di mafia e di impresentabili, onde evitare che qualcuno, non conoscendolo, lo prenda sul serio: pare infatti che parecchi siciliani si apprestino ad abboccare all’amo del “fascista galantuomo” costretto, poveretto, a subire il sostegno dei recordmen mondiali dell’illegalità, ma ovviamente a sua insaputa. Il tutto nel giorno in cui la Corte d’appello di Napoli rendeva note le motivazioni della sentenza di prescrizione sul mercato di senatori del centrosinistra all’epoca del secondo governo Prodi, che consacra B. come un corruttore incallito e impunito e dunque un golpista che rovesciò il legittimo governo del Paese comprandosi gli avversari un tanto al chilo. Sentenza che i vertici del Pd, cioé le vittime di quel golpe, han preferito ignorare (non una parola da Renzi e dagli altri big), per stracciarsi le vesti sugli scandaletti infinitamente più risibili del M5S, in vista del governo Renzusconi prossimo venturo.

Ma forse è meglio così, almeno tutto è chiaro a tutti e nessuno può più dire di non aver saputo: diversamente da qualche anno fa, chi sia B. e chi siano i suoi compari, Musumeci in testa, l’hanno capito tutti. Così come tutti hanno capito il nuovo gioco di quel che resta di Renzi che, oggi in Sicilia e domani a Roma, punta tutte le sue carte sul centrodestra nella speranza di abbracciarlo nel prossimo governo (sempreché B. abbia ancora bisogno di lui). Domenica sera, chiuse le urne, sapremo molto di quel che ci riserva il futuro. Se i siciliani ricascheranno fra le braccia dei vecchi poteri marci, vorrà dire che si saranno meritati la fine irreversibile della loro isola, definitivamente consegnata al malaffare corruttivo e mafioso. Se invece premieranno gli unici due candidati che la mafia la rigettano e gli impresentabili li cacciano, cioé Cancelleri e Fava (anche col voto disgiunto – per la lista di sinistra e per il candidato governatore grillino, che ha più chances), potrebbe aprirsi una stagione sempre segnata dalle difficoltà (la Regione è praticamente in default), ma anche da qualche speranza di cambiamento. E la Sicilia potrebbe diventare un laboratorio per soluzioni anche nazionali. Una sconfitta berlusconian-renziana terremoterebbe FI e Pd, accelerandovi il ricambio; e un’eventuale collaborazione M5S-Sinistra potrebbe rivelarsi molto utile per sbloccare l’impasse forzata dal Rosatellum, offrendo uno sbocco opposto a quello sognato da chi l’ha voluto: un governo di cambiamento su un programma di pochi punti, sostenuto da chi non si è compromesso con le stagioni gemelle del berlusconismo e del renzismo. Dipende da tutti noi: dal nostro voto. Come dice Aldo Busi, “è ora che gli italiani scendano in piazza a protestare contro se stessi”.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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