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scarantino vincenzodi Gea Ceccarelli
E' passato alla storia come il più grande depistaggio avvenuto in Italia, e non è un'iperbole. Si tratta della ragnatela di mezze verità, omissioni e menzogne che, dal '92 a oggi, hanno vorticato attorno alla strage di Via D'Amelio, avvenuta il 19 luglio di quell'anno.
Lì, sotto la casa della madre del giudice Paolo Borsellino, un'autobomba esplose, facendo saltare in aria il magistrato e gli uomini della scorta.
Si trattava del secondo attentato dinamitardo in meno di due mesi: cinquantasette giorni prima, a Capaci, moriva nel cosiddetto “attentatuni” il collega e amico di Borsellino, Falcone.
E' in questo contesto che bisogna immaginare sia nata l'idea del depistaggio. Il tentativo di coprire probabilmente i veri responsabili e, al contempo, tranquillizzare la popolazione. Il come era semplice: trovando un capro espiatorio perfetto.
Le indagini sulla strage di via D'Amelio vennero subito assegnate al “superpoliziottoArnaldo La Barbera. Capo della squadra mobile di Palermo, con un passato all'interno del Sisde, con il nome in codice di Catullo.
Una personalità controversa, quella di “Arnold”, come lo chiamavano in Questura. Quando morì, nel 2002, per un tumore al cervello, i giornali non persero tempo a dipingerlo come uomo tutto di un pezzo. Almeno finché, con nuovi processi, nuovi procedimenti e nuove indagini, alcune ombre cominciarono a intaccarne l'integrità morale.
Secondo quanto ricostruito dal collaboratore di giustizia Franco Di Carlo, per esempio, La Barbera era uno dei tre agenti segreti che si recarono da lui in visita, in carcere, per chiedere un aiuto atto ad allontanare Falcone da Palermo, dove “stava facendo troppi danni”. Una visita che si colloca temporalmente poco prima del fallito attentato all'Addaura, il 21 giugno dell'89.
Una provocazione o un tentativo di omicidio, quello, di cui si occuparono anche i “cacciatori di latitantiEmanuele Piazza e Nino Agostino, uccisi poco dopo, entrambi in circostanze misteriose. Il secondo, in particolare, venne freddato assieme alla moglie incinta: subito si parlò di delitto passionale, pista avallata anche da La Barbera, ma clamorosamente falsa.
Agostino, nei giorni prima di morire, stava indagando su quei candelotti esplosivi rinvenuti sulla spiaggia di fronte alla villa di Falcone: secondo il pentito Oreste Pagano, pertanto, venne ucciso poiché “aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura”.
Chi siano questi “componenti” non è dato saperlo: certo è che subito dopo l’assassinio dell’agente, La Barbera inviò un suo uomo di fiducia a compiere una perquisizione non autorizzata in casa della vittima, facendo sparire documenti che Agostino stesso aveva indicato come importanti al fine dell’emersione della verità.
Ma di tutto questo, nel '92, non si sapeva nulla. E il superpoliziotto venne incaricato di indagare proprio sulla strage di via D'Amelio. Indagini frenetiche, talvolta grottesche, certo anomale: diversi testimoni non vennero ascoltati, il consulente informatico Gioacchino Genchi venne estromesso dalle indagini improvvisamente, nessuno si interrogò su dove fossero finite la borsa e l'agenda rossa di Paolo Borsellino. Ciononostante, a settembre, venne fatto per la prima volta il nome del colpevole della strage: Vincenzo Scarantino, 27 anni, nipote di un boss della Guadagna: era stato lui a rubare la Fiat 126 poi detonata.
Giustizia compiuta. O quasi: più iniziavano a emergere dettagli sulla figura di Scarantino, più tutto appariva incredibile. Era un piccolo delinquente, non affiliato a Cosa Nostra, che si era auto-accusato della strage, cambiando diverse volte versione. I pm di Palermo, che lo ascoltarono per altri procedimenti, lo giudicarono totalmente inattendibile; diversa opinione per quelli di Caltanissetta, che lo giudicavano perfettamente credibile.
E così fu. La sua versione venne, nonostante tutto, avvallata in tre diversi processi: il Borsellino 1, Borsellino 2, Borsellino ter. Nove persone vennero condannate per la strage. E a nessuno, o quasi, importò più che, nel frattempo, Scarantino avesse cominciato a rendere pubbliche le sue denunce: era stato costretto a mentire, anche da La Barbera, era stato vessato e torturato affinché sostenesse di essere lui il colpevole.
Nel frattempo, La Barbera proseguì nella sua scalata professionale, fino alla prematura morte. Un eroe, per tutti, almeno fino al 2008, quando, sulla scena non comparve Gaspare Spatuzza. Fu lui a squarciare il velo: era stato lui a organizzare la strage di via D'Amelio.
La verità, quella vera, riemerge dal passato. Lo fa, stavolta, in maniera inattacabile. Spatuzza ricostruisce tutto in maniera precisa, decisa, fornisce prove e riscontri alle proprie dichiarazioni. Grazie a lui, gli innocenti vengono scarcerati, sebbene si sia dovuto attendere fino al 13 luglio scorso, prima che venissero definitivamente assolti nella revisione del processo a loro carico.
Nel frattempo, ad aprile, il Borsellino Quater, avviato nel 2012 proprio a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Spatuzza, si conclude con una sentenza quantomeno storica: Scarantino è stato “indotto a mentire” da “apparati di polizia”. Il timore è che, adesso, tutta la responsabilità verrà scaricata su La Barbera, dimenticando gli altri. Colleghi e sottoposti del superpoliziotto, certo, ma anche giudici e pm che hanno, di fatto, avallato per decenni una menzogna. Per Salvatore Borsellino, due nomi su tutti: Tinebra e Palma. Per altri, più che altro detrattori del processo sulla trattativa Stato-mafia, anche il giudice Di Matteo. Ma era stato proprio Salvatore Borsellino, mesi fa, a denunciare come i primi due avessero impedito a Scarantino di raccontare la verità al terzo pm, ricordando anche le dichiarazioni di questi al processo: “Lo dicevo sempre che non sapevo niente sulla strage e Tinebra mi disse che questa storia della collaborazione dovevo prenderla come un lavoro”, aveva spiegato il falso pentito della Guadagna, in quell'occasione.
E riguardo Annamaria Palma, che, secondo le dichiarazioni dell'uomo, avrebbe consegnato ad uno dei poliziotti addetti a Scarantino dei verbali d'interrogatorio con espliciti appunti? Anche lei: lo avrebbe rassicurato di non preoccuparsi di accusare innocenti in quanto “se non hanno fatto questo hanno fatto altro”.
Il falso pentito, ascoltato dai giudici in aula, aveva anche raccontato di aver avuto i numeri di cellulare dei due magistrati: “Li sentivo. Avevo i numeri di cellulare di Tinebra, della Palma, di Petralia”. Ma non di Di Matteo.
Lui, (Di Matteo ndr) aveva rivelato Scarantino, “l’ho incontrato una volta e non gli ho mai detto che gli imputati erano innocenti”. D'altronde. “non è che ho fatto tanti interrogatori con lui perché li facevo sempre con Palma e Petralia. Per quello che ricordo però a Di Matteo non dissi nulla, anche perché lo vedevo più rigido e meno disponibile degli altri”.
Escluso Di Matteo, resta comunque lunga lista di presunti responsabili, i cui nomi - si spera - riemergeranno dal passato grazie a nuove indagini. Nel frattempo, altri due ne sono già spuntati, anche se piuttosto in sordina. Li cita Enrico Deaglio, sul Post, ricordando un episodio eclatante del 2013, quando, durante un'audizione del processo Borsellino Quater, il legale Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, controinterrogò Spatuzza, domandandogli, tra l'altro, se avesse già raccontato a qualcuno, prima del 2008, l'estraneità di Scarantino alla strage. Il collaboratore negò e, in quel momento, Sinatra estrasse un verbale di interrogatorio datato 1998, in cui l’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e il suo vice, Piero Grasso, raccoglievano diverse informazioni da parte di Spatuzza. Tra queste, appunto che Scarantino era un falso pentito, inventato dalla polizia.
Proprio come confermato dall'ultima sentenza; solo, 19 anni dopo.

Tratto da: articolotre.com

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