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una strage sempliceEccidi di Capaci e via D’Amelio tappe di un unico disegno di cui sappiamo troppo poco
di Corrado Stajano

Si può dire che questo libro di Nando dalla Chiesa, Una strage semplice (Melampo), sia, un quarto di secolo dopo, la commemorazione più vera, dolorosa e terribile, dell’assassinio di Giovanni Falcone e del massacro sanguinante di Paolo Borsellino e delle loro scorte. A Palermo, a Milano, un po’ dappertutto si è appena ricordato sia l’anniversario di Capaci sia, in tono minore, quello di via D’Amelio. Lo si è fatto spesso con sincero dolore, partecipi anche i giovani: la nave della legalità arrivata coi ragazzi a Palermo è stata un segno bello e civile. Sono usciti anche libri seri e importanti, Storie di sangue, amici e fantasmi , del presidente del Senato Pietro Grasso, L’assedio di Giovanni Bianconi. Ma nella patria del melodramma che ama i palchi gremiti di autorità celebranti, gli sbandieratori, i tamburi, le cerimonie sono state anche formali. Si è parlato di quel passato che non passa come di una storia finita, senza porsi le domande che non hanno ancora risposta, e non si è tentato di riempire i buchi neri, dimenticando, per esempio - una vergogna da nascondere - il processo in corso a Palermo, mafia-Stato, di cui nessuno parla.
Nando dalla Chiesa, professore ordinario di Sociologia della criminalità organizzata all’Università Statale di Milano, che, da quasi ragazzo, porta sul cuore il macigno della tragedia della mafia, confessa nel finale del libro di averlo scritto «esclusivamente a memoria» controllando solo le cifre, le date, i giorni, tanto quei fatti gli si sono impressi nella memoria. Nei decenni non ha mai smesso di pensarci su, di scriverne, di fare: «Vorremmo saperne molto di più. (...) Vorremmo conoscere per filo e per segno come andò», confessa.
Perché Una strage semplice? Lo scrittore, autore dopo l’assassinio di suo padre, del memorabile libro Delitto imperfetto, risponde così: quella strage (un’unica strage, come dimostra) «avanzò grazie alle sconfitte e grazie alle vittorie, indifferentemente, delle sue vittime designate. Con una linearità che ebbe qualcosa di epico e implacabile, dentro una grande recita corale. I misteri successivi, l’agenda rossa (di Borsellino, scomparsa, ndr ), gli uffici dei Servizi segreti a monte Pellegrino, gli incontri tra esponenti dello Stato e ambasciatori di Cosa nostra, fanno parte di un grande e sconfinato scenario».
Una strage semplice non vuole essere un saggio organico sul fenomeno politico-criminale della mafia. Seleziona piuttosto i punti più accesi della tragedia di Cosa nostra che in pochi anni uccide a Palermo tutti, proprio tutti, gli uomini dello Stato, i migliori, il prefetto, e con lui magistrati, carabinieri, poliziotti, uomini politici, medici legali che stanno facendo il loro dovere nel nome della Repubblica e dello Stato di diritto.
Possono sembrare frammenti, queste pagine, ma i fatti narrati, il tutto sulla mafia che l’autore riesce a dire, sono invece bene incastrati l’uno nell’altro. Il lettore che li conosce li ritrova, anch’egli con angoscia e nuovo immenso stupore; il lettore che non li conosce può diventare l’esterrefatto spettatore di un giallo inimmaginabile ma scientificamente verificato.
Il racconto scorre. Dal 1982, l’anno dell’assassinio di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci, e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso per quel che era e rappresentò nei cento tremendi giorni nella Conca d’Oro, al 1984, quando avvenne l’incontro tra Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta, il «pentito» per eccellenza. È una scena di gran teatro il lungo interrogatorio di quell’estate. «Don Masino» ha deciso di parlare, è la sua vendetta nei confronti dei capimafia diventati nemici. Di quel magistrato si fida: ha intuito che tutto sa della mafia, conosce, capisce, gli basta mezza parola, un gesto. Spiega a lungo che cos’è veramente Cosa nostra, la sua struttura, le decine, le famiglie, i mandamenti, fino alla Cupola, nomi e cognomi. La notte del 28 settembre di quell’anno partono 366 ordini di custodia cautelare. I due terzi finiscono in carcere, tra gli altri l’ex sindaco Vito Ciancimino e i cugini Salvo, i potenti esattori. «Lei diventerà famoso», dice Buscetta a Falcone, «ma loro non scorderanno». Cosa nostra non scorda naturalmente Buscetta. Si vendica ferocemente, stermina quasi tutti i suoi familiari, una decina.
Il metodo Falcone sembra elementare: seguire il flusso del denaro sporco, cercarlo in tutto il mondo. I soldi sono come bisce, le prove. Cosa nostra investe, certe banche svizzere o d’altri Paesi ne sono imbottite. Non soltanto con i profitti della droga. Falcone scopre i traffici illegali, gli appalti appetiti dalle aziende, soprattutto del Nord, anche pulite, in combutta con la mafia. La sua inchiesta semina il terrore nel Paese illegale e anche in quello formalmente legale.
Poi il maxiprocesso che nasce dall’ordinanza-sentenza del pool Caponnetto, Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta: 10 febbraio 1986, 475 imputati, i capi di Cosa nostra in gabbia nell’aula bunker costruita vicino all’Ucciardone. Non è mai accaduto. La paura, l’ambiguità dei giudici e della società assente l’hanno avuta sempre vinta. Quella volta no. Il processo di primo grado va a buon fine, la sentenza della Cassazione, il 31 gennaio 1992, conferma l’impianto accusatorio del pool.
Falcone, il giudice con la barba, è un nemico, non solo della mafia. Viene oltraggiato, linciato, subisce impavido (e sofferente) le più vili accuse. Deve arrivare il 6 maggio 2004 per ricevere una «medaglia d’oro al valore», alla memoria. La seconda sezione penale della Cassazione, in una sentenza, scrive che il magistrato fu «oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia, tendenti a impedirgli di assumere quei prestigiosi incarichi cui aveva diritto perché era indiscutibilmente il più bravo e il più preparato, e offriva le maggiori garanzie - anche di assoluta indipendenza e di coraggio - nel contrastare, con efficienza e in profondità, l’associazione criminale».
Deve subire in quegli anni un marasma di offese. Quando Leonardo Sciascia scrive sul «Corriere» (contro Borsellino, ma in effetti contro i giudici) il rovinoso articolo del 10 gennaio 1987 in cui dice, tra l’altro: «I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più in Sicilia, per fare carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso», Falcone, accorato, confida che quell’articolo ha fatto regredire di dieci anni la lotta alla mafia. Borsellino, il 25 giugno 1992 - ha soltanto un mese di vita - dice alla Biblioteca comunale di Casa Professa, a Palermo, che quel giorno dell’articolo Giovanni cominciò a morire.
Racconta Nando dalla Chiesa che Falcone sa di psicologia e di antropologia, oltre che di diritto, sa leggere i bilanci, possiede una cultura e una fantasia giuridica che gli fanno sempre immaginare e mettere in pratica le misure operative e legislative adatte per sconfiggere la mafia. È il naturale successore di Caponnetto, il consigliere istruttore del pool. Il Csm, con il tradimento, la cattiva coscienza, la lucida preoccupazione di quel che Falcone può fare, la stupidità, gli preferisce un magistrato che nulla sa di mafia - proprio per questo - ed è capace di distruggere il pool disturbante. Ciò che fa.
Falcone viene di continuo delegittimato, isolato. Nel 1989 subisce all’Addaura, vicino a Palermo, un attentato. Un borsone pieno di tritolo viene lasciato davanti alla sua casa. Per fortuna non esplode. Falcone parla di «menti raffinatissime» e non si riferisce soltanto alla mafia. Viene accusato di avere organizzato lui l’attentato fallito.
Se ne va da Palermo. Non ne può più dell’assedio mafioso-istituzionale, accetta dal ministero della Giustizia l’incarico di direttore generale degli Affari penali. Il ministro è il socialista Martelli, Falcone viene criticato anche da chi gli vuole bene e lo stima. La mafia, invece, se ne preoccupa molto. Salvo Lima commenta la nomina con Angelo Siino, il «ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra»: «Chistu si metterà l’Italia nelle mani».
Falcone non considera una ritirata il suo andare in via Arenula a Roma. Si muove subito come un dannato, un angelo vendicatore, meglio. Riesce a far firmare ad Andreotti il decreto che fa tornare in carcere decine di pericolosi mafiosi chissà perché liberati, seguita a indagare sui centri occulti del potere, sulle alleanze con la mafia, pone le basi per la nascita della Procura nazionale antimafia che spaventa i poteri criminali e non soltanto loro. Sarà lui il procuratore. Viene annunciato con imprudenza. Cosa nostra, del resto, ha informatori e confidenti ovunque e sa quel che succede in tempo reale. Falcone viene ucciso per tutto questo, una vendetta per il passato, un’azione di prevenzione per il futuro. Capaci.
Poi Borsellino. Nando dalla Chiesa spiega, convincente, che Capaci e via D’Amelio fanno parte di un unico disegno. Cosa nostra anticipa i tempi, ha qualche notizia di cui non si sa. È al corrente che sarà Borsellino il nuovo capo della Procura. Sa anche che il magistrato conosce l’andamento, forse i segreti della morte di Falcone. Qualcuno, misterioso, chiede a Riina il nuovo delitto. «Abbiamo ucciso Falcone e adesso abbiamo addosso il suo gemello», coraggioso e fedele, deve pensare Cosa nostra insufflata dagli inconfessabili interessi di una certa imprenditoria del Nord, anche al di fuori dell’organizzazione.

Tratto daCorriere della Sera

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