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dali antonio web8La richiesta della Dda di Palermo firmata dal procuratore Lo Voi. L’atto giudiziario risale al 4 maggio. Udienza il 18 luglio
di Rino Giacalone
La richiesta di applicazione della sorveglianza speciale e del soggiorno obbligato per il senatore trapanese Antonio D’Alì porta la firma dei vertici della Procura distrettuale antimafia di Palermo: quella del procuratore capo Lo Voi, del procuratore aggiunto Dino Petralia, del pm Paolo Guido. E la data di presentazione della richiesta alla sezione del competente Tribunale per le misure di prevenzione di Trapani, è del 4 maggio scorso. Quando ancora era incerta la decisione, poi presa, dell’ex sottosegretario all’Interno di presentarsi alle prossime elezioni amministrative.

Nessuna giustizia ad orologeria, come immediatamente si è sentito dire a Trapani da diverse parti, vicine ma anche distanti dal senatore D’Alì, tanti pronti a stigmatizzare l’azione giudiziaria. Ma parole che non trovano sponda nei fatti. La notifica della richiesta, con la fissazione dell’udienza, è stata fatta ai difensori del politico trapanese, da sempre molto chiacchierato per i suoi rapporti diretti con i Messina Denaro, suoi campieri nei terreni di proprietà a Castelvetrano, a poche ore dalla conclusione dei termini per la presentazione delle candidature, e adesso D’Alì, che è corso subito a Roma per chiudersi in un confronto con Berlusconi e Gianfranco Miccichè, coordinatore regionale di Forza Italia, deve decidere se confermare o meno la sua corsa per le prossime amministrative di giugno.

Politica a parte, l’udienza è fissata per il prossimo 18 luglio, davanti ai giudici del Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani. In venti pagine la Procura distrettuale antimafia di Palermo evidenzia alcuni passaggi scritti nelle due sentenze, di primo e secondo grado, che hanno visto il senatore D’Alì prescritto e assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Prescritto per i fatti risalenti sino al 1994, assolto per i fatti successivi. Contro la sentenza di appello la Procura generale di Palermo ha già proposto ricorso in Cassazione. Sia in primo grado che in appello i magistrati hanno chiesto la condanna a sette anni per l’ex sottosegretario all’Interno, che fu al Viminale tra il 2001 e il 2006. D’Alì “è socialmente pericoloso” questo il netto giudizio dei magistrati della Procura distrettuale. La richiesta si aggancia sopratutto allo scenario della vendita di un vigneto di proprietà della famiglia D’Alì nell’agro di contrada Zangara di Castelvetrano. Una vendita fittizia, nel senso che D’Alì formalizzò la vendita della proprietà al gioielliere, poi pentito, Francesco Geraci, ma di fatto quel vigneto transitò nella proprietà di Totò Riina attraverso la famiglia mafiosa dei Messina Denaro. E ai Messina Denaro, D’Alì restituì in tre tranche i 300 milioni di vecchie lire pattuiti con Geraci per la vendita davanti al notaio. I Messina Denaro notoriamente furono campieri nei possedimenti del senatore D’Alì.

Una ricostruzione dei fatti che per il giudice di primo grado, quanto per la Corte di Appello, è risultata fondata, ma per il lasso di tempo trascorso è scattata la prescrizione. E però la prima campagna elettorale che Tonino D’Alì affrontò, quando si candidò per la prima volta nel 1994 al Senato per Forza Italia, secondo i giudici fu condotta con il sostegno della massima espressione di Cosa nostra trapanese, quella dei padrini Ciccio e Matteo Messina Denaro. Tanto che i giudici di appello hanno concluso sottolineando una “accertata condotta illecita” dell’imputato. E sebbene il resto dell’accusa, dagli anni successivi alla sua prima elezione sino ai giorni degli appalti nell’area portuale di Trapani per le gare della gara velica Coppa America, le interferenze con l’attività a difesa dei beni sequestrati e confiscati condotta dall’allora prefetto di Trapani Fulvio Sodano, tra il 2001 e il 2003, i rapporti indiretti con il capo della mafia trapanese Francesco Pace e prima ancora con Vincenzo Virga, le interferenze nella definizione di finanziamenti per il settore turistico, l’ossessione per vedere trasferito da Trapani l’allora dirigente della Squadra Mobile Giuseppe Linares, per come raccontati anche dal sacerdote Ninni Treppiedi, sono rimasti non provati in sede di processo penale, l’elencazione di questi rapporti “pericolosi” fatta anche dal collaboratore di giustizia Nino Birrittella, per la Dda di Palermo benissimo rientrano nell’alveo che prova per la Dda la pericolosità sociale dell’ex sottosegretario all’Interno. A pesare sono anche le dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia, sentiti hanno più volte ribadito che si trattava “di persona vicina all’associazione mafiosa e disponibile in caso di bisogno”. Per la Dda di Palermo l’affermazione sulla vicinanza di D’Alì a Cosa nostra è da coniugarsi ancora col verbo presente, non al passato. Agli atti della sentenza di appello i giudici poi hanno ritenuto parecchio credibile la circostanza che D’Alì ricevette dal carcere un telegramma firmato Francesco Virga, figlio dell’allora boss latitante Vincenzo, che sostanzialmente gli contestava disinteresse alla sua causa giudizaria. D’Alì ha sempre negato, l’ex moglie, Picci Aula, ha fatto altrettanto, dopo averne comunque parlato con la giornalista Sandra Amurri. Per i giudici invece la storia, sebbene non provata dal ritrovamento del telegramma, non è da ritenersi infondata.

Tratto da: liberainformazione.org

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