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Da parecchi anni a questa parte, appena Luciano Violante apre bocca, non riusciamo a non pensare alla barzelletta politicamente molto scorretta del bambino nero che, giocando in cucina, si rovescia addosso un pacco di farina e corre dalla madre: “Mamma, mamma, guarda, sono diventato bianco!”. Quella gli rifila un ceffone: “Così impari. Vai da tuo padre e ripeti quello che mi hai detto”. Il piccolo esegue: “Papà, papà, guarda, sono diventato bianco!”. Il genitore estrae la cinghia dai pantaloni e gliela stampa sul sedere: “Ah sì? E non ti vergogni? Vai subito a ripetere a tua nonna quel che hai detto a me!“. “Nonna, nonna, guarda, sono diventato bianco!”. La vegliarda lo prende a male parole e a borsettate in testa. Il bimbo, dolorante, va in bagno a ripulirsi davanti allo specchio: “Cazzo, cinque minuti che sono bianco e già ’sti negri mi stanno sul culo”. Variante politically correct, ma molto meno divertente: “Cinque minuti che sono bianco e son già diventato razzista”. È la stessa parabola di Violante. Quand’era il giudice istruttore a Torino, indagava su complotti politici che vedeva solo lui, tipo il golpe immaginario di Edgardo Sogno, medaglia d’oro della Resistenza, uno che non sarebbe riuscito a prendere il potere neppure nel suo condominio (infatti fu arrestato e assolto).

Quando entrò in politica, candidandosi nella stessa città in cui aveva indagato (cosa che oggi il suo partito trova improvvisamente orripilante), anticipò quello che oggi lui e il suo partito chiamano “giustizialismo”. Scrisse addirittura la richiesta di impeachment per il presidente Cossiga, accusato di “interferire illegalmente nelle attività del legislativo, dell’esecutivo e del giudiziario”, cosa che poi avrebbe fatto all’ennesima potenza Re Giorgio, fra gli applausi di Violante. Ai tempi di Tangentopoli e Mafiopoli, fu tra i più strenui difensori dei pool di Milano e Palermo, ben contento di passare sui giornali degl’inquisiti per il leader del “partito delle procure” (ci cascò persino Riina). Da presidente dell’Antimafia, interrogò Tommaso Buscetta sulla mafiosità di Andreotti (ma non Vito Ciancimino, che pure l’aveva più volte chiesto: guardacaso l’ex sindaco mafioso stava trattando col Ros del generale Mori, che voleva pure propiziare un colloquio fra i due, rifiutato da Violante, che però si scordò di informarne la Procura di Palermo). Alla discesa in campo di B., bollò Forza Italia come “un manipolo di piduisti e del peggio del vecchio regime” e accusò il Cavaliere di “chiamare la mafia alle armi” e circondarsi di “un giro di mafia”. Poi si candidò in Sicilia nel ’96.

E si fece accompagnare in campagna elettorale sulle Madonie dai fratelli Potestio, imprenditori vicini al Pds finiti sotto inchiesta per concorso esterno (Piero Grasso definì uno di loro, Stefano, “mafio-imprenditore”). Poi, quando fu chiaro chi aveva vinto fra le guardie e i ladri, ingranò la retromarcia. Non era più giustizialista da cinque minuti, e già ’sti giustizialisti gli stavano sul cazzo. Grande sponsor di tutti gli inciuci con B., si vantò di avergli garantito “di non toccare le televisioni” in barba alla sentenza della Consulta che imponeva la riduzione delle reti Fininvest da tre a due. Esaltò la Bicamerale anti-giudici di D’Alema, Boato & C. Iniziò ad attaccare le procure che osavano indagare sui politici, in nome di un non meglio precisato “primato della politica” (anche sulla legge). Parlando dei processi a B., arrivò a teorizzare con i Ghedini e i Pecorella che davanti alla legge i politici sono più uguali degli altri: “Gli eletti alle massime cariche dello Stato possono essere esentati dalla responsabilità penale o, in modo assoluto, per determinati reati, o, a tempo, sinché rivestono una carica politica”. Poi sparò alzo zero sulla Procura di Palermo che, intercettando i telefoni di Nicola Mancino, s’era imbattuta in alcune conversazioni con Re Giorgio che all’epoca tentava di interferire nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. E se la prese col Fatto e con i pochi politici rei di raccontare lo scandalo: “Di Pietro, Grillo, Travaglio e parte del suo giornale sono un blocco politico-mediatico che aggredisce il Quirinale” ai “fini della conquista del potere” e “usa una parte del mondo giudiziario come clava per realizzare un progetto distruttivo” e “abbattere i pilastri istituzionali”: “un serio problema democratico”. Mancò poco che chiedesse di arrestarci per terrorismo.

Purtroppo la lunga retromarcia di Violante-2 da Violante-1 non sortì i risultati sperati: più volte candidato (anche da Cicchitto: sono soddisfazioni) al Quirinale e alla Consulta, non più ricandidato alla Camera, raccattò soltanto una doppia poltrona di “saggio” per le grandi riforme di Napolitano, fortunatamente abortite. Eppure ancora nel 2013, quando il neopregiudicato B. faceva il diavolo a quattro per avere la grazia e non decadere da senatore, il noto participio presente del verbo violare gli fece da scudo umano. E si giocò quel che restava della sua faccia avallando la bizzarra tesi berlusconiana dell’irretroattività o incostituzionalità della legge Severino (tesi poi spazzata via dalla Corte): “Il Senato può sollevare l’eccezione di illegittimità alla Consulta”. E pure alla “Corte di Strasburgo”, abbondantis abbondandum. Ora, per coerenza, difende Minzolini dal rischio che la Severino sia uguale anche per lui: “Il Codice penale è diventato la Magna Charta dell’etica pubblica: un segno di autoritarismo”. Quindi, mentre i dipendenti pubblici devono rispettare regole etiche molto più stringenti del Codice penale, i politici possono delinquere e restare al loro posto anche da condannati definitivi per peculato e interdetti dai pubblici uffici. È la Magna Charta violantiana. Poco charta e molto magna.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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