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fava claudio c sf 3di Claudio Fava*
La prima relazione che la Commissione Antimafia dedica, nei suoi 50 anni di attività, al rapporto tra mafie e informazioni non è un titolo di merito ma il segno di una necessità. Per le cifre che la cronaca ci consegna, tre giornalisti minacciati ogni due giorni con un incremento quasi esponenziale negli ultimi anni. E per la realtà di un mestiere in cui non basta assumersi, spesso in solitudine, il fardello del rischio ma occorre farsi carico anche di una precarietà umiliante.

Metà dei giornalisti che hanno ricevuto segnali di “attenzione” da parte delle mafie non hanno nemmeno un contratto, vengono ricompensati con pochi euro ad articolo, a volte non sono nemmeno iscritti all’Ordine: giornalisti di fatto ma non di nome, per i rigidi formalismi della nostra legge.

C’è una parola che li racconta e ne descrive la fatica e l’isolamento professionale: freelance. Ossia senza patria, senza cittadinanza nella professione, invisibili, clandestini. Per tutti, tranne per quelli che li vogliono costringere al silenzio con ogni mezzo.

Solo un dato di cronaca: tre degli otto giornalisti uccisi in Sicilia – Alfano, Rostagno e Impastato – non erano nemmeno pubblicisti. Abusivi ai sensi di legge. Ma considerati talmente bravi e dannosi per Cosa Nostra da doverne ordinare la soppressione.

La relazione dell’Antimafia non ha voluto raccontare quei morti per evitare il rito delle celebrazioni, appagante ma ripetitivo. Ha scelto di raccontare i vivi dando loro la parola, raccogliendo decine di audizioni e centinaia di ore di verbali.

Volevamo che fosse il loro sguardo a guidarci lungo le trincee spesso sconosciute di questo mestiere. Molti di loro hanno nomi ignoti, nessun rotocalco s’è mai occupato delle loro storie, nessun riflettore s’è acceso sui loro rischi: eppure se l’informazione in Italia resta uno degli strumenti di racconto e denuncia più efficaci nei confronti delle mafie, è a quei giovani cronisti che lo dobbiamo.

E non sono le dieci righe di solidarietà che li rincuoreranno alla prossima minaccia: per farli uscire da quel cono di rischio e d’ombra occorre una sola cosa, mettersi sulle spalle le storie che loro raccontano, farle diventare di tutti, narrazioni popolari e diffuse, non affidate alla caparbietà di pochi.

Così non è. Non sempre almeno. Il comunicato di solidarietà non si nega a nessuno ma la scelta di condividere quei loro racconti è più complicata. Anche su questo la relazione riferisce, documenta, spiega. E dà conto di quella parte d’informazione – per fortuna limitata – che ha scelto la via comoda della reticenza, se non del fiancheggiamento mafioso.

Storie di silenzi editoriali lunghi e opachi che abbiamo ricostruito grazie alla voce di chi quei silenzi li ha subiti sulla propria carne o attraverso i molti atti giudiziari che documentano e dimostrano le aree di contiguità tra alcuni giornali e le cosche mafiose.

Storie ricostruite sempre con nomi e cognomi, chi rischia e chi tace, perché una indagine sul giornalismo e la mafia non poteva permettersi il lusso dell’allusività, della diplomazia o – peggio – della reticenza. Il 2 marzo la nostra relazione è stata approvata alla Camera all’unanimità, buon segno per il paese: purché non resti solo un atto di cortesia istituzionale.

*Vice presidente Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Relazione sullo stato dell’informazione e sulla condizione dei giornalisti minacciati dalle mafie

Ossigeno per l’informazione

Tratto da: liberainformazione.org

Foto © S. F.

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