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tranfaglia nicola4di Nicola Tranfaglia
Diciamo la verità. In questo 2016, anno di grazia che assiste a una crisi internazionale di grandi dimensioni e pone gran parte dei Paesi europei di fronte alla tragedia epocale dei migranti nell'Europa, molti non sanno o non hanno voglia di sapere che oltre duecento cronisti radiofonici, televisivi o scrittori sulla carta stampata o sui tanti siti dell'informazione sono bersagli diretti delle associazioni mafiose. Per la prima volta in un cinquantennio, la Commissione parlamentare antimafia nel nostro Paese ha svolto un'indagine specifica sulle intimidazioni nei confronti di chi racconta e/o commenta le vicende della società planetaria per pochi o molti lettori e spettatori. La relazione che ne è nata è stata approvata nei giorni scorsi all'unanimità dalla Camera dei deputati e impegna il governo a prendere iniziative per risolvere i problemi messi in evidenza dal testo.
Ora i giornalisti e i pubblicisti nel nostro Paese non godono di grande popolarità e l'ulteriore concentrazione favorita dalla recente fusione tra la Repubblica e la Stampa che, nell'età della globalizzazione, ha consegnato ai grandi oligopoli, per ragioni di potere oltre che per il diffondersi delle notizie attraverso la rete informatica, non rassicura l'opinione democratica favorevole alla libera concorrenza, al pluralismo informativo e alla indipendenza delle testate giornalistiche, non disponendo peraltro neppure di una buona legge contro i conflitti di interessi particolarmente forti in campo televisivo.
Ebbene tanti di loro e spesso sono giovani e non godono di popolarità come accade invece alle grandi firme di alcuni quotidiani e settimanali ma fanno con onestà il loro mestiere e - secondo la relazione di 104 pagine scritta dal vicepresidente Claudio Fava e approvata dalla Commissione parlamentare antimafia guidata dall'on. Rosy Bindi - incominciano subito dopo a ricevere minacce dalla criminalità mafiosa.
Dal 2006 all'ottobre 2014 i giornalisti italiani vittime di boss o trascinati in tribunale con querele temerarie e ingiustificate sono stati 2060. E non esistono più territori indenni dalle minacce. I giornalisti sono nel mirino in Lombardia e in Emilia, in Sicilia e in Calabria, in Puglia come nella provincia campana di Caserta, regno incontrastato del "clan dei casalesi" di Casal di Principe.
Sul litorale di Roma come ad Ostia. Anche quando parlano di mafia e di Chiesa come è capitato due anni fa a Michele Albanese, corrispondente da Gioia Tauro del quotidiano della Calabria e subito aggredito da due boss della ndrangheta. Qualche giorno prima il cronista aveva inviato al suo giornale la fotografia di una processione in cui la statua della Madonna si fermò davanti alla casa del boss locale. Lo stesso avviene in terra di camorra dove il nipote di uno di loro a Pignataro Maggiore si diede da fare per far licenziare dal Corriere di Caserta Enzo Palmesano un giornalista considerato uno che andava "contro gli interessi della famiglia".
Da quelle parti il 23 settembre 1985 era stato ucciso Giancarlo Siani cronista del quotidiano Il mattino e sempre in quelle contrade avevano lavorato Roberto Saviano, Lirio Abbate e Giovanni Tizian tutti costretti a girare con una scorta per evitare di essere uccisi per strada dall'associazione campana. Oppure al Nord, a Sedriano il primo comune lombardo commissariato per mafia dopo una ragazza Ester Castano scrisse sul settimanale L'alto milanese tutto quello che altri e più diffusi giornali non riuscivano a vedere.
L'esemplificazione di quello che sta succedendo in tutto il territorio nazionale - dove è impossibile ormai parlare di paesi o città ad alta densità mafiosa e vicino di altri centri non toccati dal problema - potrebbe continuare ancora con casi persino più complicati o terrificanti di quelli fatti finora. Ma ora c'è da sperare che gli italiani si rendano conto sempre meglio del problema, leggano la relazione (che piacerebbe anche a chi scrive ricevere) della Commissione ed esprimano come possono la loro solidarietà con chi rischia per informare quel che succede nel nostro tormentato Paese.

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