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caporalato immigratidi Nicola Tranfaglia
Sono passati sei anni dalla rivolta dei braccianti stagionali africani che arrivavano a Rosarno in Calabria per raccogliere le arance che maturano nell'ampia pianura di Gioia Tauro. Ora l'associazione degli agricoltori della provincia di Reggio Calabria denuncia le condizioni disumane in cui vivono gli immigrati che lavorano nei campi. In primo luogo la superficie coltivata ad agrumi da succo è precipitata da nove a tremila ettari e i neri continuano a fare una vita in condizioni inaccettabili.
Prendono 25 euro al giorno di cui tre vanno al caporale che li arruola e li porta con il suo furgone nel campo di lavoro, e il peggio arriva la sera quando arrivano nelle baracche in cui dormono lontani dai centri abitati senza acqua potabile, luce e gas.
D'altra parte, non è come i loro datori di lavori stiano meglio perché vendono la frutta raccolta dai neri a sette centesimi al chilo. Che è la metà di quanto costa produrla senza sfruttamento e illegalità. Perciò, se ci si vuole opporre al caporalato, la strada é la conversione verso altre culture. "Una filiera del ricatto - dichiara Pietro Molinaro, presidente della Coldiretti Calabria che dà la responsabilità di quel che accade - dà la responsabilità alle società multinazionali dei succhi come la San Pellegrino, la San Benedetto e in precedenza la Coca Cola che ha abbandonato la Piana dopo la rivolta dei braccianti nel 2010.
Secondo l'associazione degli agricoltori calabresi sono i prezzi impossibili che hanno determinato una situazione che non è più gestibile dal punto di vista umano". E il prezzo più caro è quello pagato dagli africani che ogni mattina affollano gli svincoli dell'autostrada alle porte di Rosarno e della vicina San Ferdinando e vanno a finire in un furgone diretto in qualche contrada. I caporali sono africani come loro e sono solo un gradino più avanti nella classifica dello sfruttamento. Se la legge sul caporalato (atto peraltro necessario sul piano etico) andrà in vigore, il distretto degli agrumi di Rosarno rischia di scomparire. Uno degli agricoltori, Alberto Varrà, racconta: "Questi due ettari e mezzo li ha comprati mio nonno dopo una vita passata negli Stati Uniti a faticare. Come faccio a sfruttare gli africani? Preferisco non raccogliere le arance..."
Anche lui, come altri, sta provando a riconvertire la produzione: da arance a frutta e ortaggi che finiscono sugli scaffali senza passare nell'industria della trasformazione.
Ora in Parlamento c'è al lavoro una commissione di inchiesta sugli infortuni e le malattie professionali che è stata attivata in seguito alla morte, l'estate scorsa, di Paola Clemente, bracciante agricola italiana morta di fatica mentre raccoglieva l'uva in provincia di Andria.
Ma il problema dell'illegalità e dello sfruttamento sugli africani in Calabria come più in generale nella penisola, con particolare intensità nel Mezzogiorno e nelle isole, è lontano dall'esser stato risolto.

ANTIMAFIADuemila
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