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scuola eu italydi Nicola Tranfaglia
Ogni tanto è il caso di riparlare dell'istruzione, in particolare di quella universitaria se, come chi scrive, si sono trascorsi molti decenni, insegnando in tre università italiane, dal Nord al Sud si ricordano quegli anni come tra i più fecondi e interessanti della propria esistenza. Così ho letto con notevole interesse l'intervista pubblicata su Articolo 21 di Antonio Banfi, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Bergamo e tra i fondatori dell'Associazione ROARS che proprio di università in primo luogo si occupa.

Alla domanda iniziale su per quali Paesi è ancora valido l'obiettivo europeo stabilito in Horizon 2020, quello cioé di raggiungere il 40% di laureati entro il 2020 e quali sono le esperienze più virtuose cui guardare, il professor Banfi dà una risposta significativa: "L'Unione Europea punta a raggiungere almeno il 40% dei laureati. Otto nazioni hanno un target superiore al 40%. L'Italia, al contrario, non solo è tra le dieci nazioni il cui target è inferiore al 40% ma presenta il target più basso dell'intera Unione Europea: 26-27% partendo dal 21% del 2012. Un target decisamente meno ambizioso di quello di altri Paesi come Malta (MT), Croazia (HR) e Slovacchia (SK) il cui dato di partenza supera di poco quello italiano. Per avere un raffronto internazionale vale la pena consultare le statistiche Eurostat. Nel 2000, l'Italia, pur essendo nelle ultime posizioni, con il suo 11,6% aveva una percentuale di laureati superiore a quella di Portogallo (11,3%), Slovacchia (10,6%), Romania (8,9%) e Malta (7,4%). Il distacco dalla media UE (22,4%) era di 10,8 punti di percentuale. Tredici anni dopo, nel 2011, pur essendo salita al 22,4%, l'Italia è scivolata in ultima posizione e il distacco rispetto alla media EU27 (37,=%) è salito a 14,6 punti percentuali. D'altronde, nel decennio 2000-2010, l'Italia è l'unica nazione europea la cui spesa in termini reali per l'istruzione non è cresciuta secondo il rapporto contenuto in Funding of Education in Europe. The impact of the Economic Crisis)." E alla seconda domanda in cui il giornale, dopo aver ricordato che l'Italia spende l'1% del proprio PIL rispetto alla media UE dell'1,5% e quella OCSE dell'1,6%, chiede se è vero che l'Università italiana costa troppo, si spiega ulteriormente: “L'Università italiana costa troppo agli studenti: dopo Regno Unito e Olanda l'Italia è terza in Europa per il costo delle tasse universitarie. Negli ultimi anni la cifra è sempre cresciuta per compensare la riduzione dei finanziamenti pubblici e i governi che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno mosso un dito per invertire la rotta. Insomma le tasse sono aumentate senza che il pubblico abbia immesso nuove risorse nella ricerca. A chi scrive è rimasto in mente che l'ultima ricerca molto ampia che feci per scrivere la vita di un grande industriale italiano Alberto Pirelli non ricevette nessun contributo per una ricerca svolta in vari paesi europei e negli Stati Uniti.

L'economista Gianfranco Viesti ha scritto senza che nessuno potesse smentirlo che negli ultimi anni l'investimento pubblico nell'istruzione universitaria del nostro Paese si è profondamente modificato. In estrema sintesi tre sono stati i principali cambiamenti: 1) una forte riduzione del suo ammontare; 2) una ripartizione asimmetrica di questa riduzione; 3) l'entrata in funzione di allocazione delle risorse assai discutibili."
Insomma era difficile combinare qualcosa di peggiore e di più negativo in un tempo minore. Ma i risultati ora si vedono chiaramente e se non si interviene presto e con un insieme di provvedimenti efficaci il rischio di allontanarci ancora di più dall'Europa avanzata crescono in maniera rapida e pericolosa.

ANTIMAFIADuemila
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