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tranfaglia nicola web10di Nicola Tranfaglia
Ricordo che quando ero ragazzo e frequentavo il liceo classico di Potenza in Basilicata o Lucania che fosse, il mio insegnante di filosofia, che era un meridionale con la testa fina (come si diceva una volta), ci invitava sempre a partire dai dati di fatto "oggettivi", o comunque presumibili come tali, e partendo da essi impostare il ragionamento che volevamo fare. E questo piccolo insegnamento mi è venuto in mente di fronte al dibattito sorto tra politica e cultura storica tra la presidente della Commissione parlamentare antimafia, l'onorevole Rosy Bindi e il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, frequentato peraltro nella mia breve e spiacevole esperienza nell'Italia dei valori. Ed oggi, come era peraltro inevitabile, se ne parla ancora su qualche giornale soprattutto di opposizione: quelli renziani (che sono ormai la maggioranza) agiscono come un solo uomo e non vogliono dare spazio alle contraddizioni, o smagliature della crisi, che il presidente-segretario aborre più di tutto.

Ma ha senso prender posizione di fronte alla tesi, espressa in poche battute dall'onorevole Bindi, che parla dell'associazione mafiosa, nota come camorra, come "elemento costitutivo della società napoletana" (e altrettanto ha fatto, ma qualcuno lo ha dimenticato, ieri il procuratore nazionale antimafia Roberti che attende di esser confermato nella sua carica) e la risposta del sindaco de Magistris è tranchant: ha detto di "esser saltato sulla sedia" e di non poter accettare una simile affermazione. Eppure chi, come chi scrive, è nato a Napoli e lì ha compiuto i suoi studi di storia e di diritto non ha dubbi sul fatto che quella è la città di Giovambattista Vico e di Benedetto Croce ma è anche la città dei camorristi.
Basta ricordare la conferenza letta dal filosofo abruzzese-napoletano alla Società napoletana di Storia patria il 12 giugno 1923 e intitolata "Il paradiso abitato da diavoli” (Milano, 2006) o leggere la sua Storia del regno di Napoli che, oltre che nella sua opera nazionale, è stata pubblicata negli ultimi anni dall'editore Adelfi, per chiarirsi le idee ed evitare di saltare sulla sedia.
La questione, infatti, è complessa ma tutt'altro che difficile. Certo oggi la situazione italiana è piuttosto diversa perché le statistiche attuali su furti e rapine vedono l'aumento dei fenomeni criminali andando verso il Nord e lo stesso può dirsi per la mappa sull'evasione fiscale. Ma, subito dopo, è necessario precisare che questo non significa - al perfetto contrario - che c'è una predestinazione del Nord ai fenomeni che abbiamo indicato.
La verità è che (e gli italiani, ma soprattutto i grandi mezzi di comunicazione di massa, sembrano averlo ormai dimenticato) l'Italia ha una storia complicata, che ormai nessuno sembra voler ricordare. E questa storia resta l'unico strumento efficace per comprendere perché - parafrasando il titolo di un bel libro di Emanuele Felice, "Perché il Sud è rimasto indietro" pubblicato dal Mulino - il problema è quello di una storia che, ancor prima dell'unificazione nazionale negli anni Sessanta dell'Ottocento, ha visto gruppi dirigenti meridionali che hanno trovato modo di governare con metodi che oggi definiremmo mafiosi ma che già allora bypassavano le procedure usate e sapevano di sopraffazione contro le masse popolari.
Lo Stato borbonico, come lo stesso Croce ma anche altri prima di lui avevano visto, era la negazione di Dio e quel che venne dopo, con una classe dirigente nazionale che non conosceva il Sud e magari non desiderava neppure conoscerlo, non fece che aggravare la situazione e altrettanto avvenne nell'Italia liberale - prima del peggioramento che pure si ebbe con la più che ventennale dittatura mussoliniana - nella scelta e adozione delle misure per la modernizzazione del Paese.
Di qui quello che oggi possiamo scorgere anche ad occhi nudi: uno Stato caratterizzato da un vistoso divario nelle sue parti. Con certe regioni - basta pensare alla più grande, la Lombardia, che non ha nulla a prima vista da invidiare alla Baviera della cancelliera tedesca Angela Merkel - e altre, penso alla Calabria o alla Basilicata, che fanno pensare per rischiare termini di paragone, più alla Grecia che alla Germania. E' uno degli aspetti più preoccupanti della crisi italiana e dubito che un governo delle larghe intese come l'attuale esecutivo possa o voglia prendere di petto una simile questione. Ma se non lo farà, mal gliene incoglierà, è una facile profezia.

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