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vitale salvo c paolo bassani 4di Salvo Vitale
Un'occhiata dentro la pentola

Il terremoto che ha scosso una parte dell’Ufficio misure di prevenzione viene da lontano, ma ha avuto un'accelerazione  dopo che, nel maggio scorso, Leonardo Guarnotta ha lasciato, per andare in pensione, la presidenza del tribunale di Palermo e, al suo posto s’è insediato il giudice Salvatore Di Vitale. In precedenza il prefetto Caruso, a capo dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia di Reggio Calabria, aveva più volte evidenziato le difficoltà con cui si trovava a lavorare nel suo ufficio, sia per mancanza di personale, sia per le anomalie di una legislazione che dava carta bianca ai giudici delle misure di prevenzione, conferendo loro un enorme potere. Al centro delle sue critiche il ruolo degli amministratori giudiziari, una cerchia privilegiata di poche persone incapaci o voraci che avevano condotto al fallimento la quasi totalità delle imprese affidate , con la perdita di posti di lavoro e di credibilità nei confronti di chi avrebbe dovuto rappresentare lo stato.  La Commissione Antimafia, venuta a Palermo nel marzo 2015, ascoltava il prefetto Caruso, ascoltava magistrati e amministratori, ma non riusciva a liberarsi dal pregiudizio che Caruso fosse un uomo di centro destra e che era “di sinistra” la difesa della magistratura e del suo operato nella lotta contro la mafia.  Tutto rimaneva congelato, si prometteva una nuova legge, Caruso pertanto preferiva, o forse era invitato ad andare in pensione e al suo posto veniva nominato il più morbido prefetto Pignatone.

Andava intanto avanti  la solitaria battaglia della piccola emittente televisiva Telejato, da tempo caratterizzata da una spiccata vocazione antimafia e l’inchiesta si dipanava attraverso il comportamento degli amministratori giudiziari, il loro malgoverno, la cupoIa che soprastava a tutto ciò, della quale facevano parte la presidente dell’ufficio misure di prevenzione, esponenti della DIA al suo  servizio, magistrati di varie procure siciliane, cancellieri, figli, parenti, amici e loro figli, una serie di avvocati e dottori in economia e commercio, con studi più o meno rinomati, ma legati dagli stessi interessi e in stretta corrispondenza tra di loro. Unico obiettivo, gestire una fonte di reddito incalcolabile che proveniva dai beni confiscati ai mafiosi, o presunti tali, ma soprattutto usare a proprio vantaggio la benevolenza di chi disponeva  a chi assegnare le nomine o emetteva decreti di sequestro, magari avendo già  individuato da tempo il nome dell’amministratore che avrebbe nominato, o su sollecitazione dello stesso. Entrare “in quota”, cioè nelle grazie di Silvana Saguto, che, dopo una serie di cariche rivestite nel settore penale della Procura di Palermo,  si era trovata a dirigere le misure di prevenzione, significava sistemarsi e introitare ricchezze senza troppa fatica. Il canale d'accesso privilegiato era Cappellano Seminara, con il suo megastudio e con una trentina di avvocati al suo servizio, ma con buoni "ammanicamenti"  presso buona parte degli studi legali palermitani. Fra l’altro, eventuali assoluzioni dei presunti mafiosi nei processi, non comportavano la riconsegna dei beni: l’ufficio misure di prevenzione poteva mantenere il sequestro, reiterarlo con nuove presunte imputazioni, trasformarlo in confisca, ma lasciarlo in mano agli stessi amministratori, ratificare le scelte fatte da costoro, attribuire loro incarichi senza limiti e senza controlli, emettere decreti di confisca anche sulla base di semplici sospetti, deduzioni, transitività di parentele mafiose, storie pregresse di collusioni da parte di antenati o parenti, deposizioni pilotate di pentiti, disposti a dire quello che gli suggerivano di dire, magari  poi smentiti in sede processuale. Con una peculiarità unica in Europa, in aperta violazione dei diritti del cittadino e della tutela dei suoi beni,  la legge prevede che non è il giudice a dimostrare o a raccogliere le prove relative all’imputazione, ma spetta all’indagato l’onere della prova, ovvero la dimostrazione che, quanto è stato da lui realizzato, non è stato fatto con i soldi o con la collusione della mafia. Pratiche di questo tipo erano in vigore durante la Controriforma, dal 1500 al 1700, allorchè vigeva la legge del sospetto:  bastava una semplice denuncia di un privato,  per sbarazzarsi di una  presenza scomoda e impadronirsi dei suoi beni. In questo caso è vero che l’unico proprietario dei beni rimane lo stato, ma prima che lo diventi c’è una lunga trafila fatta di udienze, di rinvii, di nomine, di riconvocazioni, di ritardi, di decreti, di tempi di pubblicazione del decreto, di tempi di produzione del decreto al magistrato, di documenti cui manca una firma o  una parola, di richieste di nuovi documenti ecc., che consentono all’amministratore giudiziario di restare saldamente al suo posto e di continuare a spremere gli emolumenti per sé e per i suoi collaboratori dalle casse dell’azienda affidata. Aggiungiamo che l’amministratore, sino ad adesso, non paga e non ha mai pagato per le sue disfunzioni, per la sua cattiva amministrazione, per la sua incapacità o per i suoi furti nella gestione aziendale, che non è vero, o è vero solo sulla carta, che gli amministratori sono pagati dallo stato: i soldi sono estratti dai proventi dell’azienda, dalla eventuale vendita dei beni di questa, (in molti casi svendita o vendita ad amici e in condizioni di favore), dalle discrasie di una legge che obbliga alla riscossione dei crediti, ma non al pagamento dei debiti.  La legge sulle  misure dei prevenzione ha altri aspetti  e punti deboli che ne mettono in discussione la stessa esistenza. Il sistema palermitano dei “quotini”  rappresenta la degenerazione di questa legge e la creazione di quella che, poco opportunamente, è stata definita “mafia dell’antimafia”, ovvero di un sistema di gestione delle risorse dell’economia siciliana non secondo il criterio moderno della produttività, ma secondo quello, tipicamente mafioso, del parassitismo economico: non investimento e imprenditorialità, ma disamministrazione, clientelismo, spartizione dei proventi tra una cerchia di amici, curatori, collaboratori, di cui non ci sarebbe alcun bisogno, ma che appartengono al cerchio magico,  e utilizzazione della maschera della legalità per arrivare alla drammatica, retorica e scontata conclusione che in Sicilia, quando si tenta di fare rispettare la legge, inevitabilmente si fallisce, perché non c’è la cultura della legalità e perché tutta l’economia siciliana è fondata sul lavoro nero, sulla corruzione, sullo sfruttamento illegale dei lavoratori,  sull’evasione fiscale, sul circuito di distribuzione di merci e lavori tra i rappresentanti del sodalizio mafioso o paramafioso, nel quale è difficile entrare se non se ne condividono le regole.  Nulla di diverso dalla “cupola quotina” che in questo momento sta strangolando Palermo. Sembrerebbe che la mafia generi contromisure repressive che presentano le stesse caratteristiche di quelle mafiose: cambiano i volti ma non i metodi.
A seguito di tutto questo il tribunale di Caltanissetta convocava Pino Maniaci, il responsabile della piccola emittente televisiva Telejato, come persona informata dei fatti: Maniaci si presentava ai P.M. Gabriele Paci e Nico Gozzo, che  vanno e vengono anche dal tribunale di Palermo, con una serie di documenti e di notizie delle quali gli stessi giudici sembravano non essere a conoscenza e, dopo qualche ora di audizione se ne andava, con l’impegno di essere riconvocato, cosa che ancora non è successa. Tuttavia qualcosa sembra essersi smosso, dopo le due trasmissioni delle Iene, che hanno messo in luce l’incapacità amministrativa di Modica de Moach, amministratore e distruttore dell’azienda dei Cavallotti e di Cappellano Seminara ,“il re” degli amministratori, dall’alto dei suoi 94 incarichi e non solo 8 come egli stesso ha sostenuto. Qualcosa si è anche mosso dopo che una serie di procedimenti penali si sono conclusi con l’assoluzione definitiva dei presunti  imprenditori “in odor di mafia” e con sentenze di restituzione dei beni sequestrati e, in alcuni casi, confiscati. I giudici si stanno trovando adesso ad affrontare situazioni sinora impensabili, ovvero quella degli imprenditori che, dopo anni di “allegra finanza”, per non parlare di rapine, da parte dei  nominati dal tribunale, chiedono di essere risarciti proprio da questi. Ove dovesse avviarsi questa scelta di risarcimento, ci troveremmo, per la prima volta in una circostanza molto vicina a quella sulla responsabilità civile dei giudici e sarebbe forse il primo serio segnale di presenza dello stato.

Ultimi sviluppi
- Silvana Saguto è stata “spostata” alla terza sezione penale: coloro che finiscono tra le sue mani si augurano che eviti di continuare a convocare l’udienza alle nove e presentarsi a mezzogiorno per disporre un rinvio di tre mesi o che si diletti a colorare i suoi fogli di appunti con matite di vari colori quando parlano gli avvocati difensori. In un paese normale un magistrato sotto indagine per reati di corruzione e induzione alla corruzione, dovrebbe essere sospeso dall’incarico, in attesa di chiarire la sua posizione, ma non è il caso dell’Italia o della Procura di Palermo. Assieme a lei sono indagati il marito Lorenzo Caramma, un ingegnere che si dice abbia ricevuto 700.000 euro da Cappellano Seminara come compenso per consulenze, il figlio Elio detto Crazy, che lavora come chef presso l’hotel Brunaccini di Cappellano Seminara, anche se lui lo nega e, addirittura, secondo qualche giornale, anche il padre della Saguto. Al posto della Saguto è stato nominato il giudice Mario Fontana, presidente della terza sezione penale;

- Walter Virga
, il trentenne amministratore giudiziario della rete di negozi Bagagli e dell’impero finanziario dei Rappa (un miliardo e mezzo di lire, secondo le stime della DIA), si è  dimesso dal suo incarico in quanto figlio di Pietro Virga, già componente del C.S.M.. non rieletto e pertanto tornato presso il tribunale di Palermo. E’ al vaglio degli inquirenti l’accusa di essersi adoperato per chiudere un procedimento penale nei confronti della Saguto;

- Il giudice Chiaramonte
, componente del collegio delle misure di prevenzione, ha chiesto di essere trasferito ad altro ufficio ed è indagato per abuso d'ufficio. Al suo posto andrà Luigi Petrucci.

- Il giudice Dario Scaletta
, sorta di devoto uomo della Saguto, è sotto indagine perché sembra sia andato a raccontarle che nei suoi confronti era stata aperta un’ inchiesta;

- Cappellano Seminara
dopo la denuncia per truffa scattata in Romania, è indagato per gli stessi reati della Saguto, ma sembra che su di lui stiano piovendo una serie di altre indagini e accuse. Lui se n’è uscito con un semplice “Così fan tutti”, più o meno come aveva detto Craxi quando voleva scagionarsi dall’accusa di intascare tangenti;

- Su Fabio Licata
, anche lui componente del collegio giudicante delle misure di prevenzione, si dice che ci saranno sviluppi, ovvero che potrebbe essere indagato o essere sentito come teste. Ultimamente, in un pubblico intervento si è sperticato nell'elogio  della legge sulle misure di prevenzione;

- La DIA
, nel suo strisciante conflitto con la DDA, continua a voler far credere di agire sparando cifre gonfiate e inesistenti sull’effettivo valore dei beni confiscati. Viene così ad essere falsata anche la valutazione complessiva dei presunti 40 miliardi di euro sequestrati in Sicilia: forse sono della metà. Non sarebbe male, pur non mettendone in discussione i meriti, arrivare alla sua chiusura, come proposto anche da qualche noto magistrato antimafia (Gratteri) e raggruppare le competenze in un solo organismo.

- Carmelo Provenzano
, che qualche giorno prima su La Repubblica, pagina di Palermo, si era sperticato in un elogio degli amministratori giudiziari, definendoli malpagati,  ingiustamente odiati e con infinite difficoltà nell'espletare il loro compito, è finito anche lui sotto indagine.

- Alcuni quotidiani on line
dicono che presto saranno rimossi dai loro incarichi alcuni amministratori giudiziari. E’ quello che ci si augura e, mi permetto di dire all’eventuale magistrato che se ne occuperà, che posso fargli i nomi dei più corrotti e dei più incapaci.

Conclusione
Da un paio di anni mi occupo di queste storie. Ne ho sentito di tutti i colori. Negli studi di Telejato sono venute e continuano a venire persone  alle quali è stata distrutta la vita, oltre che impedita ogni possibilità di lavoro, persone a cui è stato confiscato anche il motorino della figlia, che avevano una casa di proprietà dei loro antenati  che sono stati costretti a lasciare, persone con gravi patologie e bisognose di cure, costrette a cercarsi un alloggio diverso dalla propria casa o a pagarne l’affitto all’amministratore giudiziario, vecchietti sfrattati, gente che continua a vedersi arrivare intimazioni di pagamento e bollette varie che sarebbe toccato pagare all’amministratore giudiziario, il quale non l’ha mai fatto:  risposta del tribunale cui si sono rivolti: paga per adesso e poi il tribunale provvederà a farti rimborsare. Ho ascoltato persone riferirmi di avere chiesto  al tribunale la possibilità di accedere a un prestito o di avere una proroga per curarsi o per curare i propri parenti, ma di avere ottenuto solo rifiuti e sarcastici commenti. Ho ascoltato persone cui non sono stati pagati anni di lavoro, altre rovinate dal mancato pagamento di commesse, altre buttate sulla strada dopo venti o trent’anni  di lavoro qualificato e sostituiti da gente inesperta, ma “amica” dei nuovi padroni. Qualche volta mi sono messo a piangere anche io con loro, nel sentire queste storie e  nell’ascoltare  la loro considerazione tristissima: “E’ possibile che   non debba esistere  giustizia?” Altre volte ho avvertito l’impotenza del non poter dare alcun consiglio, alcun suggerimento, alcuna speranza. Ma in ognuno di loro ho avvertito un bisogno  di raccontare la loro storia e di renderla nota: “la gente deve sapere, per rendersi conto di quello che abbiamo sopportato, con l’etichetta di mafiosi attaccata sulla fronte.Vogliamo parlare, perché non abbiamo più nulla da perdere. Vogliamo raccontare  anche dei nostri avvocati, schiavi o complici dell’operato dei tribunali”, del modo in cui simo stati trattati, delle umiliazioni, della ricerca di qualche soldo per sopravvivere”.  Altre volte sono arrivato alla conclusione che questa Sicilia è così perché noi siciliani, “giudici eletti, uomini di legge”, forze del presunto ordine, imprenditori, preti, politici, dirigenti, dipendenti, vogliamo che sia così  e che resti così. Perché non c’è più indignazione, ribellione, voglia di lotta, capacità di organizzazione. Solo rassegnazione. Perché  siamo abituati ad aggregarci come pecore a un pastore e spesso siamo disposti a perdonarlo, anche quando viene meno al suo ruolo. Perché le persone in cui abbiamo creduto e a cui abbiamo dato il voto si sono dimostrate incapaci  e hanno agito come quelle che le hanno precedute. Atutti recito, con amarezza, la parte finale di una poesia di Lorenzo Stecchetti, un poeta napoletano di fine ottocento:

“Guai a chi attende per le vie legali
vedere il trionfo della sua ragione.
Fidente aspetterà, tranquillo e muto
e resterà….fottuto.”

“Allora non c’è proprio nulla da fare?”, mi dicono. La mia risposta, scontata e poco convinta è: “sperare e lottare”. Intanto ho suggerito una proposta di una class action nei confronti degli amministratori, per il rimborso dei danni da loro causati.

Foto © Paolo Bassani

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