Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

matteotti-giacomodi Nicola Tranfaglia - 10 giugno 2015
Sono trascorsi molti decenni dall'assassinio politico più importante avvenuto nell'Italia liberale dopo la prima guerra mondiale, per la precisione novantuno anni. E manca soltanto un decennio scarso ai cento anni da quando Giacomo Matteotti, leader del partito socialista unitario, nato e cresciuto in Veneto e laureato in giurisprudenza all'Università di Bologna, venne ucciso a Roma mentre si recava a Montecitorio (eletto la prima volta nel 1919 e quindi rieletto nelle legislature seguenti del 1921 e del 1924) da cinque membri della polizia politica fascista (Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo). Capo della polizia in quel momento era il quadrumviro della marcia su Roma Emilio De Bono e altri due fascisti importanti come Cesare Rossi e il sottosegretario Aldo Finzi, che erano stati visti frequentare gli uomini di Dumini. Questi, da parte loro, lo avevano caricato in una macchina, una Lancia Lambda, presso il ponte sul Tevere di via Arnaldo da Brescia e lo avevano ucciso in auto di fronte alla resistenza del giovane (39 anni) deputato dell'opposizione. Quindi lo avevano seppellito alla periferia della capitale, presso la macchia della Quartarella, in un bosco nel comune di Riano a venticinque chilometri da Roma.

Due giorni dopo, il 12 giugno, il deputato socialista Enrico Gonzales indirizzò una interrogazione al presidente del Consiglio e Mussolini dovette rispondere: "Credo che la Camera sia ansiosa di avere notizie sulla sorte dell'onorevole Matteotti, scomparso improvvisamente nel pomeriggio di martedì scorso in circostanze di tempo e di luogo ancora non ben precisate, ma comunque tali da legittimare l'ipotesi di un delitto che, se compiuto, non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del governo e del parlamento. "I socialisti unitari vicini a Turati, nei giorni successivi, diramarono un comunicato stampa che accusava il governo: “L'autorità politica assicura solerti indagini per consegnare alla giustizia i colpevoli ma la sua azione appare totalmente investita dal sospetto di non volere e di non potere colpire le radici profonde del delitto né svelare l'ambiente da cui i delinquenti emersero". Il 22 giugno ci fu a Bologna una grande manifestazione di sostegno a Mussolini organizzata da Dino Grandi e il 26 giugno i parlamentari dell'opposizione si riunirono in una sala di Montecitorio oggi nota come sala dell'Aventino in cui decisero di abbandonare i lavori parlamentari finché il governo non avesse chiarito la propria posizione sull'omicidio Matteotti. Nonostante le ricerche continuassero il corpo di Matteotti fu ritrovato per caso solo il 16 agosto tra le 7.30 e le 8 del mattino dal cane di un brigadiere dei carabinieri in licenza, Ovidio Caratelli, nella macchia della Quartarella dove gli uomini di Dumini lo avevano seppellito fin dal dieci giugno. Il 20 agosto fu riportato a Fratta Polesine il corpo del deputato socialista. La vedova di Matteotti qualche giorno prima dei funerali previsti in quel centro scrisse al ministro dell'Interno Federzoni chiedendo che al funerale non fossero presenti esponenti del Partito Nazionale Fascista e della Milizia. “Chiedo - scrisse la vedova - che nessuna rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno: nessun milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno sotto forma di un funzionario di servizio. Chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio né a Fratta Polesine fino a tanto che la salma sarà sepolta".
Quello che avvenne dopo si può riassumere per capi essenziali, tante volte è stato rievocato dagli studiosi italiani e stranieri che sono ritornati nei loro libri su quel capitolo essenziale legato alla morte di Matteotti.
Mussolini respinse inizialmente l'accusa di un suo coinvolgimento nel delitto Matteotti. Ma poi cambiò atteggiamento e decise di assumersi tutte le responsabilità e alla Camera pronunciò il 3 gennaio 1925 un discorso che tendeva soprattutto a riaffermare, di fronte ad alleati e ad avversari, la sua posizione di capo indiscusso del fascismo: "Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a  cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate  bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una  passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stata un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico, morale, io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi”.   
Ora, al di là di un'altra vicenda che si collega al delitto Matteotti, un affare del governo italiano con la società petrolifera Sinclair di cui molto allora si parlò, la partita si gioca nelle settimane successive di fronte allo scandalo, emerso anche a livello internazionale, con l’atteggiamento - favorevole al presidente del Consiglio - della monarchia che si delinea con sempre maggior chiarezza e le forti divisioni interne nelle opposizioni. E più passa il tempo più gli italiani possono rendersi conto che non matura un'alternativa di governo in tempi brevi né Mussolini ha nessuna intenzione di andare a nuove elezioni. Ed è questo punto che il leader romagnolo si rende conto della concreta possibilità di mantenere e accrescere il suo potere. E' a questo punto che si delinea il destino a cui è destinato il Bel Paese: un autoritarismo monarchico che bada all'espansione esterna e mette sotto il tappeto i grandi problemi irrisolti della penisola, a cominciare dalla questione meridionale e dalle libertà individuali e collettive. Una condizione che si protrarrà per un ventennio abbondante, ventuno anni per l'esattezza. Questo dobbiamo ricordare prima di tutto di quel fosco delitto di regime.

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos