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tranfaglia-nicola-web14di Nicola Tranfaglia - 21 aprile 2015
La Corte di Cassazione nel nostro paese dispone di una stampa quotidiana che una volta era divisa a metà tra i laudatores per definizione, che ne parlavano sempre e bene, e una superstite stampa di opposizione (ridotta ormai ai minimi termini dopo la morte dell'Unità) che ogni tanto critica il forte allineamento della corte suprema all'establishment politico del Paese. Ma erano altri tempi che i più giovani neppure ricordano. Ora le cose sono cambiate e anche dalla Cassazione arrivano a volte decisioni che non sono per definizioni gradite a quell'establishment di cui si diceva. E questo succede in particolare quando si tratta di questioni per così dire legate a un argomento purtroppo centrale del nostro amato Paese, quello che riguarda le associazioni mafiose che dal Nord al Sud, senza trascurare il Centro e le isole, percorrono e devastano la penisola.

Ora la seconda sezione penale della Corte, presieduta da Antonio Esposito, con la sentenza al processo Minotauro ha rivelato, a chi non se ne fosse ancora accorto, la potenza, e per certi aspetti il primato della 'Ndrangheta anche al Nord. Ma i giudici torinesi dicono che, sebbene questi fossero in contatto con la casa madre di Reggio Calabria, non erano solo dei "meri bracci esecutivi", anzi "potevano individuare propri obbiettivi e agire di conseguenza nei modi ritenuti più opportuni ed efficaci". L'autonomia delle locali di 'Ndrangheta a Torino era garantita anche dalla solidarietà interna, dimostrata anche dalle "collette" e dalle estorsioni fatte per raccogliere denaro da destinare ai carcerati e alle famiglie e dalla protezione nei confronti degli esterni. Contrariamente a quel che hanno sostenuti gli avvocati, secondo i giudici della suprema Corte il metodo mafioso è stato fondamentale nell'ascesa dell'associazione calabrese a Torino:" Per commettere delitti (in genere estorsioni in danno di imprenditori e di commercianti) e assumere il controllo di attività economiche, gli affiliati si sono concretamente avvalsi della forza di intimidazione dell'associazione mafiosa, con il conseguente assoggettamento delle vittime e il rifiuto omertoso delle stesse di collaborare con gli inquirenti" scrivono i giudici. Per mettere in luce l'omertà largamente diffusa i magistrati ricordano che "in molte occasioni gli imprenditori della zona non hanno mai denunciato i delitti di cui sono rimasti vittima". Spiegano poi che "la concreta capacità di intimidazione viene poi dal legame con la "'Ndrangheta reggina" di cui ha mantenuto modalità organizzative e comportamenti tipicamente mafiosi"ma si è manifestata autonomamente in Piemonte "realizzando nella comunità locale quelle condizioni di assoggettamento e di omertà". Inoltre "sempre a dimostrazione del carattere mafioso è stata tenuta la vastità del campo di interesse dell'associazione, tutt'altro che limitato al mero controllo di attività commerciali ma esteso a quello dell'edilizia."
Una parte importante delle motivazioni è dedicata ai due "pentiti", Rocco Varacalli e Rocco Marando. Di Varacalli, collaboratore grazie al quale il pubblico ministero Sparagna ha potuto aprire uno squarcio su questo mondo, scrivono: "il suo narrato è rimasto coerente e costante, privo di contraddizioni e munito di plurimi riscontri esterni, mai smentito da risultanze processuali di segno contrastante." Peraltro Varacalli è stato appena condannato a 23 anni di carcere per un omicidio commesso quando era libero. Di Marando i giudici sottolineano che "proviene da una famiglia pesantemente coinvolta in gravi fatti di sangue nell'ambito di scenari di criminalità organizzata."

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